Marchionne, il giacobino nero

Stefano Cingolani

Un colpo d'ariete alla concertazione, a quel che resta del vecchio compromesso socialdemocratico, o meglio, al modello sociale che si è imposto in Europa a partire dal Dopoguerra, dalla vittoria sul nazifascismo”. Per Fausto Bertinotti, “l'operazione Marchionne”, come la chiama in una conversazione con il Foglio, è ambiziosa, forse anche al di là delle intenzioni del manager dal pullover nero.

    “Un colpo d'ariete alla concertazione, a quel che resta del vecchio compromesso socialdemocratico, o meglio, al modello sociale che si è imposto in Europa a partire dal Dopoguerra, dalla vittoria sul nazifascismo”. Per Fausto Bertinotti, “l'operazione Marchionne”, come la chiama in una conversazione con il Foglio, è ambiziosa, forse anche al di là delle intenzioni del manager dal pullover nero. “Avete fatto bene a metterla così in evidenza. Una bella idea giornalistica e politica. Perché siamo davvero alla fine di un ciclo che per me è il ciclo della democrazia. L'aveva capito un liberale come Ralf Dahrendorf quando parlava del secolo a-democratico. Voi la definite rivoluzione, io la trovo una innovazione reazionaria. Marchionne compie dal basso quel che realizza dall'alto il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet: in fabbrica il sovrano assoluto è la competitività; fuori è la moneta; in entrambi i casi sono scelte non negoziabili che espellono la soggettività”. La dittatura della tecnica nella sua variante economica? “E' la morte della politica. Berlusconi o Papandreou, non possono far altro che le stesse scelte”.

    Il ragionamento di Bertinotti parte da lontano,
    dalla caduta del Muro di Berlino. Per arrivare a Pomigliano e a Mirafiori ci sono duemila chilometri e una ventina d'anni. Ma non è affatto un volo di Pindaro. “Abbiamo pensato che il crollo dell'est riguardasse soltanto il comunismo, invece la fine del Novecento ha travolto anche la famiglia laburista e socialdemocratica. Perché quella rivoluzione capitalistica e conservatrice che è la globalizzazione ha messo in crisi l'intero compromesso europeo, la lotta di classe che si fa democrazia come diceva Hans Kelsen. E' la tragedia del centrosinistra che pensava di stare sulla cresta dell'onda, in Italia come altrove, invece è finito sotto l'onda”. Per Bertinotti il patto neocorporativo è sopravvissuto a lungo come illusione, o meglio “ha fatto sopravvivere nelle istituzioni ciò che non esisteva più nella sostanza, l'istituzione è servita da supplenza, ha legittimato dall'esterno quel che non aveva più legittimazione interna”. Per esempio il sindacato? “Esattamente, ma anche l'organizzazione degli imprenditori vive sul riconoscimento del governo”.
    L'Italia ha sempre mostrato una sua peculiarità rispetto ai paesi del nord Europa caratterizzati da un ampio ricorso alla legislazione sociale. “Da noi i rapporti sono stati regolati dai contratti, l'unica legge è lo Statuto dei diritti dei lavoratori che stabilisce una cornice. In questo siamo più vicini al modello americano, ma con una differenza di fondo: la presenza di un movimento operaio strutturato. Ciò ha creato una struttura singolare nella quale il conflitto ha sempre avuto una sua autonomia. E spiega anche la presenza di leader sindacali autorevoli, i quali mediavano tra conflitto sociale, sindacati e partiti. La concertazione ha cambiato i termini, negando autonomia al conflitto. Insomma, il contratto è funzione della concertazione. Le conseguenze si rispecchiano nel salario. Nel 1975 avevamo le retribuzioni più alte d'Europa, nel 2005 le più basse. La borghesia in questi trent'anni non ha mai fatto i conti con il fantasma degli anni 70 che non ha mai cessato di evocare, uno spettro inquietante che non è riuscita a metabolizzare”.
    Potremmo dire che la spesa pubblica è la scorciatoia che ha assorbito il conflitto stampando moneta e aumentando il debito. “E' stata una deformazione del keynesismo. Un primo colpo l'ha inferto la svolta liberista degli anni 80, rispetto alla quale la concertazione ha rappresentato un tentativo di rinviare la resa dei conti e di esorcizzare la crisi. La globalizzazione ha fornito l'illusione che si potesse addirittura sradicare”. Invece la crisi ha bruciato ogni via di mezzo. “La crisi propone due vie d'uscita: da sinistra, riannodando il filo interrotto della trasformazione del lavoro; dall'altra parte c'è invece l'idea che quel che si è costruito con la bardatura della concertazione non funziona più e l'impresa riprende la sua libertà d'azione”.

    Insomma, il modello Marchionne è l'altra uscita, l'uscita da destra. Egli stesso ha definito uno spartiacque: prima di Cristo e dopo. “Dopo il cristianesimo, direi, perché in realtà viene messa in discussione l'autonomia della persona”. Bertinotti prende un testo dattiloscritto, il discorso che l'ad della Fiat ha tenuto nel giugno 2006 all'assemblea degli industriali torinesi. E ne cita un paio di passi: “Come mai allora sosteneva che ‘i risultati raggiunti alla Fiat dimostrano che trasformazioni simili sono possibili anche in un paese con forte coscienza sindacale e con quello che la maggior parte dei commentatori anglosassoni chiamerebbero struttura del lavoro poco flessibile'? E perché oggi pensa il contrario?”. Allora lo definivano un manager socialdemocratico. Cos'è successo, c'è di mezzo la crisi mondiale? “Con la crisi è cambiata la collocazione geopolitica della Fiat – spiega l'ex presidente della Camera – Quella del 2006 era una impresa italiana che aveva il problema del consenso, interno e ambientale. Lo spostamento del baricentro induce anche lo spostamento della filosofia industriale. La fabbrica diventa una macchina da guerra. Ecco che tutti i conflitti, anche quelli governabili, diventano incompatibili”.
    Ma non è la legge bronzea della competitività? “Ci sono più modelli competitivi, quello delle isole di montaggio e quello della catena non sono gli stessi. Per Marchionne esiste un solo modello e questo sì è autoritario”. Si tratta di una variante del toyotismo. “No, perché il sistema giapponese parte dal lavoratore per integrarlo nella fabbrica, Marchionne compie il percorso inverso. Per esempio, chiede una saturazione del tempo di lavoro, non il suo prolungamento, perché il limite è stabilito una volta per tutte con i 18 turni che assicurano un pieno utilizzo degli impianti. La sua diventa quella che i teorici dell'ergonomia definiscono una stalla modello”. Qui viene fuori il Bertinotti sindacalista che si è fatto le ossa a Torino. E ricorda: le pause, la mensa, così come lo straordinario sono i tre punti cardine del conflitto operaio, in quanto riguardano il tempo di lavoro. “La mensa in Fiat è stata introdotta per la prima volta nel 1977, il 7 luglio, 7-7-77, una combinazione magica. Adesso non solo viene spostata alla fine del turno, ma diventa essa stessa flessibile, opzionale. Lo straordinario dovrebbe trasformarsi in lavoro ordinario, non più una concessione. Mi ha colpito che Marchionne rimetta in discussione il contratto del 1971. E mi sono chiesto perché. La risposta è che rappresenta il primo accordo di regolazione delle linee di montaggio, secondo il criterio che la tua prestazione lavorativa deve rispettare i paradigmi della condizione umana. Invece la fabbrica viene concepita come un luogo totalitario e totalizzante, avrebbe detto Michel Foucault”.

    Ma non si può pensare a uno scambio tra tempo di lavoro e salario? In fondo è questo il modello americano che ha sempre comportato retribuzioni più alte in cambio di una rinuncia a contrattare la prestazione lavorativa. “Marchionne parla di aumentare il salario in rapporto alla produttività. Ma questo è ovvio. Il problema è che le retribuzioni italiane sono la metà di quelle americane o tedesche, parlo di paga base. La Fiat fa il contrario di Henry Ford che, con l'introduzione del modello T, aumentò i salari per produrre e poi vendere la nuova auto di massa”. Bertinotti non condivide nemmeno l'idea che la Newco, la nuova società che dovrà gestire Mirafiori, preveda di attribuire i diritti sindacali solo alle organizzazioni che firmano l'accordo. “E' un monumento al sindacato giallo. E il sindacato chi rappresenta? I lavoratori vengono cancellati. In Italia non esiste l'erga omnes, cioè il contratto firmato con una parte non vale automaticamente per tutti, quindi il sindacato deve essere legittimato dalla sua base”. Il modo migliore è ricorrere al referendum. “Certo, ma se i termini sono: o così o porto via la fabbrica, dove sta la libertà di scelta?”.

    Secondo Bertinotti, Marchionne è un avventurista. “Albert Camus sarebbe contento: con la fine della politica, in fabbrica e fuori l'uomo si rivolta, diventa inevitabile. L'impresa va per la sua strada e rompe i patti. Bene, e se anche il sindacato facesse lo stesso? Il contratto è un elemento regolatore che diventa un vincolo anche per i lavoratori. Se con la scissione unilaterale dei contratti cominciasse un ciclo di rivendicazioni azienda per azienda, come sarebbe possibile gestire il sistema industriale?”. Dunque, un'operazione ad alto rischio. “Per tutti gli altri, non per il manager: o passa il modello e può dire di aver cambiato le relazioni industriali, o non passa e torna in America. Il rischio porta sempre al compromesso, sulla base di una valutazione razionale. Invece mi pare che Marchionne si sia messo al riparo”. Oltre tutto possiede tra bonus e options circa il 2 per cento del capitale Fiat. “Forse gli operai dovrebbero cominciare a chiedergli un po' di quegli appannaggi. Potrebbe finanziare così dei begli aumenti salariali. Almeno finché la Fiat auto non tornerà al profitto. E la mia non è una rivendicazione sindacale”. Bertinotti sorride. E torna alla sua scrivania di presidente della Fondazione Camera dei Deputati. Non è una richiesta, ma non si sa mai. Magari può andar meglio che a Eric Cantona con i banchieri.