Il ritorno del fuoco sacro in occidente. Aventinvm
Nella ricorrenza del Natale Solare, celebrati con doni di fuoco i riti in onore del Nume Invitto, Lucio Giulio Glanico incontra il maestro Giulio Pomponio Leto alle pendici dell'Aventino. Lì dove principia la via che conduce al luogo in cui d'autunno si purificano i bronzi funesti di guerra, l'Armilustrium, solcato come volta celeste dalla marcia dei dodici Salii, i sacerdoti scutati di Marte.
MMDCCLXIII ab Vrbe condita
XIII ad Kal Ian
NATALIS SOLIS INVICTI
Nella ricorrenza del Natale Solare, celebrati con doni di fuoco i riti in onore del Nume Invitto, Lucio Giulio Glanico incontra il maestro Giulio Pomponio Leto alle pendici dell'Aventino. Lì dove principia la via che conduce al luogo in cui d'autunno si purificano i bronzi funesti di guerra, l'Armilustrium, solcato come volta celeste dalla marcia dei dodici Salii, i sacerdoti scutati di Marte: armati di elmo e corazza, l'asta nella destra, nella sinistra l'ancile di re Numa, nel petto possente il ritmo degli antichi carmina, nelle loro movenze il mistero di una danza pelasgica dedicata al penetrante fuoco di Troia, la danza pyr-rica.
Giulio Pomponio Leto – O mio Lucio, simile a un astro lucente tra i nembi ti riaffacci alla mia vista, qui dove il dantesco “sasso di Monte Aventino”, nell'antica selva di lauri febei, incontra il raggio solare del suo colle gemello, il Palatino. E quale giorno più propizio di questo, dedicato alla rinascita trasfigurante della luce, per incamminarci assieme lungo vie isolate che tanta sapienza celano a occhi volgari?
Lucio Giulio Glanico – Salve a te, mio Pomponio. Lontani da noi siano gli occhi profani, ma vedo invece nei tuoi il medesimo ardore dei discendenti del Sole riconoscibili facilmente dal raggio di fuoco che saettano, diritto e lontano, simile al riflesso dell'oro. E, strano a dirsi, Pomponio, tanta fiamma irradia questo bosco di lauri nel quale da tempi remoti le quadrate legioni rientrate dai campi di Marte appendevano trofei di vittoria. Qui, dove Remo è sovrano da sotterra e il re Tito Tazio trovò degna sepoltura, Borea scuote il ferro delle spoglie oscillanti dai rami e noi possiamo trarne presagio di eventi futuri e ricordi di avvenimenti passati.
Pomponio – Dici bene, Lucio. Come quando, nel tempo in cui Diana dall'arco ricurvo cacciava fiere nella selva aventina, una sua ninfa fu ghermita dall'impeto di Pan, così noi giungiamo dal Palatino sacro ad Apollo all'Aventino dedicato a sua sorella Diana, e lo facciamo tendendo l'animo nostro come un arco apollineo da cui scocca la folgore. A quanto pare l'Aventino è il colle degli aves, gli uccelli che si levano dalle fronde e traversano il cielo per offrire presagi. Sei furono in effetti gli avvoltoi avvistati da Remo sull'Aventino nella sua vana contesa con Romolo Palatino, e sei è il numero lunare secondo la tradizione nostra pitagorica. Dunque, Lucio, non dovremmo forse riconoscere nel clivio che percorriamo un pegno alla Dea Inviolata che presiede alla generazione, alla Triforme Diana?
Lucio – Dobbiamo, Pomponio. Qui Ella, nimbata e con fiaccola, è sovrana fin dal regno di Servio Tullio e nel suo tempio, rivolto a levante verso il Mons Albanus, è venerata anche nella forma della turrita Artemide Efesina: molti seni adornano la sua veste, e magnanime api con numerosi animali nascono dal suo corpo, sotto al petto sul quale vorticano i segni zodiacali del cosmo. Le prische genti del Latium vi riconoscono la Signora Aricina e, fuori dal pomerio romuleo, fra queste selve remorie, venerano nel santuario federale di Domina Diana il biancore della Saturnia Tellus.
Pomponio – Come nel primo giorno del mese si scorge la luna coperta da un velo di nebbia, così le tue parole, Lucio, richiamano alla memoria le parole dello ierofante sebezio: “Aricia si diceva ogni luogo arcano, in dove si era in tuto, in Ausonio. E le favole la dicono Ninfa che abitava sotto gli antri”. Potremmo allora dire che Diana Ausonia è una D-Iana Ignita, poiché prende il proprio attributo dal Sol degli italici tirreni, Ausil, e con la loro unione si compie il mistero ermetico in un antro arcano. Non è così?
Lucio – Lo è. Ma questo Sole, Pomponio, donde proviene se non dal Palatino? Non per caso lo definimmo a suo tempo Phalatium, dallo stesso radicale del Phal-lum primigenio, del cielo Phal-ad e del pelasgo Phal-truna o monte del potere celeste.
Pomponio – Ora fa' attenzione, Lucio. I Tirreni a loro volta, come insegna il sacerdote caldeo Beroso, si appellano stirpe dei Rasena o Razenua: “Da Raz che vuol dir sacro, e Inuo, cioè incubo, e propagatore: cioè sacro propagatore”. Sicché dal Phalatium sprigiona il seme aureo di Inuo o Pan o Fauno Luperco, il fuoco innato, principio di vita e della generazione, l'Iddio più antico dei propagatori della stirpe nostra, e dirige nel luogo arcano della ierogamia. Ma dov'è questo luogo, Lucio?
Lucio – Sull'Aventino.
Pomponio – Nell'Aventino, ragazzo. Sull'Aventino è Diana, accanto a Giunone Regina che è la Iuno Pronuba di nozze sacre, accanto a Minerva che detiene la sapienza del Phal-ladium, accanto a Flora che conserva il mistero sempreverde di Roma, accanto al tirreno Vertumnus che volge la ruota del cosmo, accanto ai numi nilotici Serapis e Isis. Ma nell'Aventino, Lucio, risiede colei che di Fauno è femmina e paredra.
Lucio – Fauna!
Pomponio – Fauna Bona Dea Subsaxana, Signora dell'antro arcano e del mistero matronale di Roma. Lupa come Latona, madre dei divini gemelli lungisaettanti dei quali Diana è la prima a vedere la luce delia, poiché il bianco deve sempre precedere il rosso nella grande opera. Prima che Romolo fondasse l'Urbe, come Fauno sul Palatino, Fauna Bona Dea era adorata nell'Aventino: fiori, semi, latte e miele venivano offerti all'epoca in cui gli Dei obbedivano al richiamo di un sacello silvestre, senza colonne a circondarlo e tetto a coprire il vasto cielo. Erano le offerte di sacerdotesse e di caste donne, archetipo delle matrone nostre, in omaggio alla virtù risanatrice della Dea, alla sua capacità di tenere mansueto lo Scuotiterra. Intorno al santuario della foeminea dea sono un bosco sacro e una sorgente d'acqua. Qui dove mai uomo poteva ardire presentarsi, i genii della stirpe Fauno e Pico usano dissetarsi e giacersi con la potenza della generazione. Soltanto a un re fu concesso di violare l'antro, Lucio.
Lucio – Numa Pompilio.
Pomponio – Il pio sovrano inebriò Fauno e Pico, dominò gli elementari del fuoco e dell'aria lì dove si congiungono con la terra e l'acqua, e li costrinse a favellare sui riti arcani per convocare Giove Ottimo Massimo Elicio, dispensatore della Folgore magmatica. Con lui Numa s'intrattenne vittorioso. E infine, come ci ricorda lo ierofante nilotico: “Il Nume. Al Numa il suo volere apria. / E questi udito il Verbo a basso Ciglio / De Dii il Dio Voler pronto eseguia”. Ora comprendi, Lucio, quale secreto è adombrato in questo colle?
Lucio – Come Minerva sospinse la nave Argo per disincagliarla nell'aria quasi fosse una freccia alata – con la sinistra s'era appoggiata a una solida roccia – così, Pomponio, le tue parole liberano quel che il mio cuore mi spinge a dire nel petto. Dunque il Palatino è la sede ignea ove origina la forza maschia del Sole. Mentre l'Aventino è il suo recipiente lunare, e ne resta fecondato. Lungo la comune valle Murcia, nel mezzo del Circo Massimo solcato dai carri stellati di Roma protesi alla Vittoria, mi pare viva il frutto della ierogamia: Conso. Lì è la sua ara sotterranea.
Pomponio – Incandescente mistero circonda quel Dio, Lucio, ma il tuo cuore non manca di nobiltà visto che palpita secondo parole veritiere. Dice ancora il maestro nilotico: “Ei sepper che 'l premoso Divo Conso, / Cui dava il nome a Consoli, e al Consiglio, / Oltre non Rea dell'Apollo intonso”. Un Apollo magmatico, Summano, progenie lavica destinata a tendere l'arco lunare per saettare il proprio comando alla discendenza consolare. E che cos'è, mio Lucio, la Diana Crescente Lunare, se non l'arco argenteo destinato a indorarsi tra le braccia di Apollo?
Inoltre sai di certo, Lucio, che la Dea Iside è rappresentata in modo simile a Diana, con la falce di luna a incorniciarne le chiome. Ecco, Lucio: il luogo dell'unione gemellare tra Phoebus-Elios e Diana-Isis, tra Palatium e Aventinum, noi possiamo a buon diritto dirlo Elisio, talché nella valle Murcia è il Circo Massimo dei Campi El-isiaci.
Lucio – Al Divino Signore dell'arco dovremo dunque ardere foglie di alloro, giacché sono certo che lui in questo momento ci ispira così profonde intuizioni.
Pomponio – Lo faremo presto, mio Lucio, ma prima gioviamoci del Dio Lungisaettante affinché con i suoi lauri igniti ci conservi il pegno della conoscenza cui abbiamo attinto e il simbolo scultoreo che riassume i nostri conversari ierogamici. Parlo di Romo e di Venere delle Perle, i capi sublimi concepiti dalla legge aurea cui è pervenuto il loro creatore, il pitagorico ignis, e la cui mirabile visione accompagnò la rappresentazione del sacro Rumon sul Palatino alla presenza del Console d'Italia. Oggi, Romo e Venere, il giovane Marte e l'Amor di Roma, dividono la stessa domus sull'Aventino che si erge davanti a noi, di fronte alla piazza dell'Armilustrium dove finalmente siamo giunti. E allora diremo con Orfeo: Pan, bicornuto Iddio, che dei venti l'impeto sfreni, poiché di tutto il mondo possiedi il modellante sigillo, cingi di luce dorata Romo e Venere. Vigila.
Lucio – E che i Salii scutati di Marte danzanti in questa piazza d'armi siano la cinta turrita della loro dimora.
Pomponio – Optime, Lucio, ita est. Ma credi forse che il discorso sull'Aventino sia terminato, o vedi piuttosto che non siamo nemmeno arrivati alla metà del cammino nostro?
Lucio – Nemmeno a metà cammino, Pomponio, poiché il Sole non ancora inclina a gettarsi nelle braccia di Oceano.
Pomponio – Allora ascoltami, Lucio. Poiché Romolo è prole giovia che impera dal Palatino e Remo è prole giovia che consiglia dall'Aventino, la sapienza nilotica ci dice questo, in versi: “Remo?… Diceasi il pieno che Consiglia. / Il di Giove Potere esecutivo. / Al Romolo-Quirino s'assomiglia. / Romolo? Si diceva il Giove Vivo. / Ossia lo Timoniere della Barca. / Ei dirigeva… e i Remi dean l'abbrivo”. In lingua ermetica, lo ierofante sebezio scioglie e al contempo riannoda l'enigma del Palatino: “Il Romolo dunque è l'Aula diva Imperante col Trono de' Numi, in cui è il Senato Supremo dei Numi…”; e scioglie e riannoda l'enigma dell'Aventino: “La Selenia che contiene nell'Unità del Pomo-Punico quel Remo, o Remigio della Barca della Repubblica ne' Remi, è stabilita nell'Aventino, ossia Lochio da Venti non ventato; che per contenere in sé il Robur dell'Urbica Potenza stabilito ne' gemelli luoghi remoti della doppia Aula, e bino Senato Maggiore, e Minore, che resta sotto la specula, è perciò che l'appellano il Remonio”. Comprendi perciò, Lucio, che nell'A-ventinum è racchiuso come un campo di battaglia dentro il quale ai forti è possibile, se non necessario, combattere per indiarsi. “A-Ventino. Spiegata la voce Grammaticalmente ti dice il Colle Aventino conosciuto da' Profani. Spiegata in Ermeneutica ti dice un Topico occulto da venti non tocco, ed erano i luoghi arcani, che restavano nel seno degli antri chiusi”. Seguimi bene, mio Lucio, perché ho intenzione di condurti con me nei recessi del Dio Petrogenito, nelle latebre del nostro Iddio invitto, nei misteri dell'italico Mithra.
Lucio – Ovunque ti seguirò.
Pomponio – Ma dobbiamo arrivare per gradi a un così grande secreto, per poi costeggiarlo senza dire più di quanto sia lecito. Cominceremo con la storia di una vita, Lucio, la storia di un Pater valoroso, esempio di virtù chiarissima incarnatosi nel IV secolo dell'èra volgare, secolo tragico e castissimo, vissuto come Faunus accanto alla sua consorte Bona Dea. Conosci tu Vettio Agorio Pretestato?
Lucio – So che fu un uomo pio, uomo di comando e di lettere, patrizio raffinato nella vita privata e inflessibile romano negli impegni della Res Publica. Tanto che penso si addica a lui più che a ogni altro la frase di Ennio: “Moribus antiquis res stat romana virisque”. Il bizantino Giovanni Lido, colmo di rispetto, lo avrebbe definito ierofante. Macrobio gli aveva opportunamente intitolato il secolo in cui visse, Saeculum Pretextati; e indicò in lui e in Quinto Aurelio Simmaco, combattenti fedeli alla prisca religio, i prediletti dal Genius Senatus.
Pomponio – Dici bene, Lucio. Vettio Agorio Pretestato e sua moglie Fabia Aconia Paolina, lui discendente pontificale di stirpe sabina, lei imparentata con gli Scipioni, entrambi di famiglia senatoriale, abitarono sul nostro Aventino. Lo ricorda un'iscrizione, sottostante una sua statua, apposta dal figlio a ricordo del padre e dei suoi incarichi pubblici: “Vettio Agorio Praetextato v(iro) c(larissimo) et inl(ustri), / correctori Tusciae et Umbriae, / consulari Lusitaniae, proconsuli / Achaiae, praef(ecto) urb(is), praef(ecto) praetorii / Illyrici, Italiae et Africa, cons(uli) designato, / legato amplissimi ordinis septies / et ad impetrandum reb(us) arduis / semper opposito, / parenti publice privatimq(ue) reverendo / ut etiam statuae ipsius domus / honoraret insignia constitui / locarique curavit”.
In un'età buia, Lucio, Pretestato assurse ai massimi onori dell'Urbe. Governò l'Acaia salvando i riti notturni eleusini dall'intolleranza dei governanti atei e delle plebi immonde. Difese l'aruspicina nostra dall'accusa di magia illegale, promosse la delegazione con la quale Simmaco patrocinò presso l'imperatore la causa dell'altare della Vittoria nella Curia Iulia, salvaguardò i templi nostri dalle spoliazioni delle nere termiti, predisse all'empio Graziano le conseguenze del suo infame gesto: “Se l'imperatore non vuole essere Pontefice Massimo, Massimo sarà presto Pontefice”. Macrobio da te evocato, Lucio, lo chiama “capo supremo delle cose di religione, primo tra i religiosi”, giacché ebbe l'onore d'una statua nel tempio delle Vestali; omaggio ricambiato da Paolina con l'offerta di una statua dedicata alla Vestale Massima Celia Concordia.
Cara agli Dei, sua moglie fu ricordata da Vettio Agorio con queste parole scolpite nel marmo capitolino e degne di essere imparate a memoria da ogni coppia romana: “Paolina compagna della verità e della castità, devota nei templi e amica dei poteri divini, mette suo marito prima di se stessa, Roma prima del suo uomo, modesta, fedele, pura nella mente e nel corpo, gentile con tutti, un dono del cielo per la sua casa. / Paolina, compagna del mio cuore, culla di modestia, pudica, vincolata alla castità, amore puro e lealtà prodotta in cielo, alla quale io ho confidato i segreti profondi nascosti nel mio cuore, dono degli Dei che legarono il nostro matrimonio con legami pudici e amichevoli; per la devozione di madre, la gratitudine di una moglie, l'affetto di una sorella, la modestia di una figlia, per tutta la manifestazione di lealtà degli amici siamo uniti dalla consuetudine dell'età, il patto della consacrazione, il vincolo del voto del matrimonio e la perfetta armonia, sostegno di suo marito, che ama, che adora, devota”.
Lucio – Davvero un dono degli Dei.
Pomponio – Ma ora, Lucio, se vuoi comprendere la ragione per la quale sarà Pretestato a condurci nelle latebre dell'Aventino, leggi questa pergamena che contiene l'epitaffio funebre scritto da Paolina per il consorte e scolpito nello stesso marmo.
Lucio – Leggo: “La gloria dei miei genitori non mi dette nulla di più grande che apparire già allora degna di mio marito; ma tutta la gloria e la luce è nel nome di mio marito, Agorio, nato da superbo seme, illumini la tua Patria, il Senato e la sposa per la probità della mente, per il carattere e per gli studi; per mezzo di questi raggiungesti l'apice più alto della virtù. […] Tu, un uomo pio, sacerdote dei misteri, celi nei luoghi segreti del tuo cuore quello che scopristi nelle iniziazioni sacre, tu, dotto, onori la divinità multiforme dei numi, e con la tua amabilità unisci a te tua moglie alle cose sacre, confidente degli uomini e degli Dei, e unita a te in una mente sola. […]
Con te come testimone sono stata iniziata a tutti i misteri. Tu, nel tuo dovere di marito, consacrami come sacerdotessa di Dindimene e Attis per mezzo dei riti del toro. Istruiscimi come una sacerdotessa di Ecate, nei profondi segreti e preparami per essere degna dei riti della Graia Cerere. Per merito tuo, tutti mi proclamano devota e beata, poiché da te emana la mia bontà nel mondo. Sebbene sconosciuta io sono nota a tutti. Con te come marito come potrei smettere di essere gradita? Le Madri Romulee mi cercano come un esempio e stimano la loro progenie come bella se assomiglia alla tua”.
Pomponio – Ebbene, Lucio, giganti come Vettio Agorio Pretestato e Fabia Aconia Paolina non dovranno forse essere esempi da imitare, i nostri confidenti cui rendere conto delle nostre virtù e dei nostri vizi, le nostre guide nella conoscenza del Nume che non subisce sconfitta custodito da Pretestato nella sua potestà di Pater?
Lucio – Devono.
Pomponio – Fedele al culto patrio e restauratore del Porticus Deorum Consentium, l'aventino Pretestato fu tauroboliatus della Magna Mater, ierofante di Ecate, sacrato a Libero e agli Dei di Eleusi, neocorus di Iside e Serapide, sakerdos Solis. Ma sopra tutto fu Pater Sacrorum e Pater Patrum di Mithra, supremo sacerdote della comunità mithriaca. Versato nelle scienze occulte e nelle lettere – Simmaco lo paragonò a Esiodo, il pastore incoronato d'alloro dalle Muse – il nostro Pater conobbe nella contemplazione pura e impassibile la divinità multiforme dei Numi. Mentre la notte coglieva l'impero e un titano straniero velava la mente dei profani, Pretestato e Simmaco si ergevano come i Castores a protezione di Roma. Poco prima di abbandonare la sua veste materiale, Vettio Agorio fu portato in trionfo sul Campidoglio mentre il popolo romano lo salutava come un duce invitto sotto le insegne di Giove Capitolino.
Lucio – Un duce invitto.
Pomponio – Già, Lucio, egli aveva combattuto e vinto. E dov'è che si combatteva in prima fila, accanto ai primipili e ai veterani triari delle legioni avite?
Lucio – Nell'Aventino.
Pomponio – Nelle sue viscere ardenti. Ora seguimi, stiamo per scendere nel mithreo consacrato nel dies saturni in cui tramontano le corna del Toro, dodici giorni prima delle kalendae di dicembre, quando fuori soffia gelido Aquilone e di sotterra l'A-ventinum è toccato solo da venti che giungono dall'immanifestato.
Lucio – Ti seguo, ti ascolto.
Pomponio – All'alba del III secolo dell'èra volgare, quando la superstizione muoveva già i suoi tentacoli, i predecessori di Pretestato nella custodia del lignaggio solare italico procedettero alla consacrazione di questo tempio sotterraneo “DEO SOLI INVICTO MITHRE”. Qui nell'atrio, alla nostra destra, è la fossa sanguinis in cui si compie il sacrificio cruento. Davanti a noi è il lungo vano centrale che si sviluppa tra due podi ai cui lati rifulgono le nicchie con le sculture di Cautes e Cautopates, i dadofori del Nume. La fiaccola dell'Aurora è impugnata da un giovane aranciovestito, quella del crepuscolo da un altro giovane abbigliato di viola. Ora, Lucio, trascura le pareti e dirigiti con me al fondo del corridoio, salutiamo il Nume in azione dentro la sua edicola.
Lucio – Andiamo.
Pomponio – Nama, Mithra!
Lucio – Nama, Mithra!
Pomponio – Osserva la durezza dei tratti romani, l'impassibilità del Dio pileato mentre configge il suo pugnale nel fianco del toro su cui fa leva con la gamba sinistra. Osserva il suo manto purpureo aprirsi, tra Sol e Luna, come una vela sotto la volta stellata del cosmo tempestata di tufi e pomici laviche.
Lucio – E' un eroe romano, Pomponio, sotto il velame del culto persiano.
Pomponio – Nulla di persiano intorno a noi, Lucio. Mithra è Roma e Roma è Mithra dapprincipio dei tempi. Altrimenti non vedresti alla sua sinistra la statua del radiante, aureo Saturno con il capo velato.
Lucio – Lo vedo, polvere d'oro ne ricopre il volto barbato, una luce discesa da età innominabili trabocca dai suoi occhi. E' il Sator, signore dell'ar-atro che dissoda le zolle per esporle alla fecondazione del raggio solare di Mithra.
Pomponio – Dici bene. Ora torna con me al centro, dove scorre l'acqua lustrale, guarda le pitture sulle pareti, leggi le scritte. Che cosa vedi?
Lucio – A destra sei figure in abito solenne e vermiglio avanzano verso una settima seduta in cattedra. Leggo le iscrizioni, vermiglie anch'esse: “Nama Coracibus. Tutela Lunae; Nama Nymphis. Tutela Veneris; Nama Militibus. Tutela Martis; Nama Leonibus. Tutela Iovis; Nama Persis. Tutela Mercuris; Nama Heliodromis. Tutela Solis; Nama Patribus. Ab oriente ad occidentem. Tutela Saturni”.
Pomponio – Bene, Lucio, hai conosciuto i nomi dei sette gradi dell'iniziazione ai misteri di Mithra e dei rispettivi Numi planetari. Ora guarda a sinistra.
Lucio – Sei giovani con tunica succinta e gialla, adornata di strisce purpuree. Portano candele, focacce, crateri, un bue, un gallo. Ciascuno di loro è riconoscibile come Leo dall'iscrizione sovrastante. Poi c'è una grotta, con un Corax dal lungo becco che serve il Sole seduto a banchetto con Mithra accanto. Entrambi purpurei, Sol è circonfuso da un nimbo cilestrino solcato verso l'alto da raggi dorati, la sua mano destra è levata in alto, la sinistra stringe un globo azzurro. Mithra è nimbato, con berretto frigio, la sua destra impugna il corno potorio.
Pomponio – Apprendi dunque che gli iniziati al quarto grado possono servire il banchetto che sancisce il patto supremo tra i Numi. Ma basta così. Seguimi nell'ambiente che si apre a sinistra.
Lucio – Seguo.
Pomponio – Fermiamoci tra questi bassi sedili, al di sotto della nicchia dai cerchi concentrici, ove il primo fuoco “bagnava” la fronte del miste, prima che fosse il miele a purificare. E ora parlami di Mithra, Lucio, mentre affissi gli occhi sulla nicchia.
Lucio – Dio nascente dalla Pietra lungo il corso di un fiume, in montagna, intorno a lui soltanto pastori, Mithra è nudo e aggredito da un vento furioso, si volge verso un albero, ne strappa le foglie per coprirsi, ne spicca i frutti e li mangia. Il Sole fiammeggiante appare e incombe minaccioso su di lui, ma lui lo fissa, comanda e si fa obbedire: l'astro gli chiede l'investitura e invoca il patto di amicizia. Ora Mithra deve uccidere il toro uscito dall'antro. Lo inforca, lo cavalca reggendosi alle sue corna finché quello, colto da stanchezza, non ripara nella grotta dove il Nume lo uccide con un colpo di pugnale. Dalla ferita del toro scorre sangue su cui s'avventa un cane, uno scorpione si getta sui genitali dell'animale, la cui coda si trasforma in spiga di grano come ben presto anche il sangue residuo. E' tutto, Pomponio.
Pomponio – E' solo l'inizio, Lucio. Mithra fuoriesce dalla pietra riportando la sua prima vittoria contro i vincoli del corpo materiale, saturnio, ossificato. I pastori sono le intelligenze superiori che governano il mondo sublunare. La nudità del Petrogenito è purezza esposta alla tempesta delle potenze elementari. L'albero, le foglie e i frutti sono il vortice di forze cosmiche violate da un ardimento maschio supremo, da una forza più forte delle forze. Così pure il Sole, Eone dardeggiante, cede il passo a una volontà di fuoco e ne diventa solidale. Poi giunge l'indomita corrente taurina del divenire: si può vincerla soltanto tenendosi immobile al di sopra di essa, senza mai lasciare la presa, finché non si arrenda. A quel punto interviene l'atto affermativo sovrano, fulmineo, inesorabile: il pugnale è conficcato dall'incorruttibile destra, il toro è vinto, il cosmo rinasce in alto come in basso. Ma basse correnti animali dell'io sono simboleggiate dal cane e dallo scorpione, eccitati dallo sprigionarsi di energie inusitate. Spazzali via, gli animali, Lucio.
Lucio – Come, Pomponio?
Pomponio – Ricorda questo: come l'Aventino, anche l'uomo è un campo di battaglia in cui si deve scegliere se arretrare e soccombere o avanzare fino al trionfo. Il dubbio equivale già alla caduta. Non c'è alternativa al trivio in cui s'imbatte l'io ridotto a nudità: dio, demone o nulla. Al dunque tu invoca l'Eone solare, Lucio, e muggisci di forza ammonia. Oltre non posso dirti.
Lucio – Simile all'urlo di Nettuno quando si getta contro gli scogli – e al marinaio da lontano il cuore si scioglie nel petto – l'animo mio turbina agognando altre tue parole, Pomponio.
Pomponio – Lasciamo che prima e meglio di me parli ancora lo ierofante nilotico: “La Petra. Era al vetusto o l'Urbe, o 'l Chiostro / Claustro 'ndentro al Sasso, Ove il Vacuista / Morava: E che finor Niuno l'à mostro”. Quella di Mithra è una solarità invincibile e romana che nasce al contempo da roccia erta e da un Lapis Niger. La grotta sotterranea è la volta celeste e il cielo è nascondimento. Ma questo lo sai già Lucio. Perciò ti dirò altro. Si entra nel tenebrore come Corax, il corvo: è lui il messaggero lunare che ordina a Mithra la tauroctonia. Si avanza come Nymphus venereo o Cryphius (occulto). Si marcia come Miles, primo vero grado iniziatico. Si arde come Leo, identificato dalla folgore. Si miete come Perses, il conservatore dei frutti nutriti da Tellus. Si ascende come Heliodromos, messaggero solare sferzante di raggi d'oro. Infine, disciolto il fisso, si fissa il volatile come Pater, o Aquila, detentore di anello (il cosmico Uroboros) e della canna (la potestà di trasmettere i riti). Il suo berretto frigio è simbolo dell'indiamento avvenuto, la falce saturnia lo riconnette all'età aurea in cui si è proiettato il suo corpo rinovellato di luce dopo il rito del taurobolio. E' il Pater ad amministrare il banchetto mistico, ove pane di vita e vino etereo sigillano l'agape sacra. Sempre lui custodisce il fuoco inestinguibile nelle latebre del sacrario. Ed è il Pater Patrum, come il nostro Vettio Agorio Pretestato, cioè il Pa-pa che in persiano significa Uomo, a tenere unite nel vincolo solare le comunità assegnate ai pontefici mithriaci. Ma ora vieni con me, Lucio, passando dal corridoio centrale entriamo nella sala parallela a questa, l'Apparatorium.
Lucio – E' il luogo dove vengono riposti gli oggetti cerimoniali, i testi sacri, le fiaccole e le tuniche.
Pomponio – Dici bene. Ma in questo mithreo, sopra tutto, è soltanto da qui che si può leggere l'iscrizione posta alla sinistra della grande edicola. Leggi la prima frase, Lucio.
Lucio – “Natus Prima Luce”. Segue la data di novembre che hai già citato.
Pomponio – Chi, o cosa, è “Natus Prima Luce”, Lucio? Mithra come il Divino Fanciullo del maestro Virgilio; e come lui il suo tempio consacrato al primo raggio febeo. Mithra non è l'ultimo Nume giunto a Roma, ma è il Primo Sole Saturnio che ritorna per governare il Grande anno pitagorico, il riallineamento dei pianeti tutelari che hanno ricondotto l'oro nel piombo e il piombo sulla volta celeste. Il pitagorico Leonardi ci rammenta che il picco più alto del Circeo è sagomato secondo il profilo di Atalante-Nettuno; ma Mithra è appunto colui che porta sulle spalle il globo del mondo: “Egli è detto Deus ex Petra! Il riferimento è dunque esatto verso quel Dio di pietra che i primitivi vedevano e veneravano sulla punta del Circeo”. Prosegue Leonardi: “Mithra è detto Tauroctono e in tutti i bassorilievi è rappresentato sopra un bue in corsa, caduto sulle zampe anteriori, vinto e domo. Il domatore Mithra immerge un coltello sul collo del toro e dalla ferita nascono erbe e piante salutari: dal midollo spinale germina il grano e dal suo sangue il vino. Si canta allora un inno che abbiamo in greco mescolato a voci incomprensibili e a oscure invocazioni: Nama, Nama, Sebesio! Il senso è questo: il Sole feconda la terra e fa germogliare il grano e nascere la vite; e l'animale più direttamente utile a tale scopo è il bue che lavora la terra e ne scava le viscere con la punta aguzza del vomere”. Fa' attenzione, Lucio, poiché Leonardi dice più di quanto sembri a un occhio distratto. Infatti conclude che in un bassorilievo romano “il fanciullo che nasce dalla roccia ha nella mano destra non un coltello, come si dice, ma una specie di grosso cucchiaio a punta ottusa che può essere un vomere primitivo”. Esattamente come il Tages etrusco, o come il Satur-nous di cui parla Plotino, ovvero l'intelletto gravido di semi. Duplice, dunque, è l'atto eroico di Mithra: cosmogonico e trionfale. Egli pertanto è la forza che erompe dal Lapis Niger di Chronos-Aiòn e ne squarcia le spire che trattengono il cosmo nell'indifferenziato. Ed è il Nume solare che riconduce a sé la molteplicità dell'esistente, facendo del piombo oro, dell'oro sangue e di Chronos-Aiòn il Phanes primordiale, l'uovo della Rinascenza cosmica. Perché Mithra, mio Lucio, è anche un Dio che ama il sangue e accompagna i legionari eroicizzati dalle battaglie per Roma. “Et nos servasti aeternali sanguine fuso”, è scritto nel mithreo nostro aventino, poiché nel sacrificio del sangue è contenuta la possibile rinascita di un'anima o di un'epoca aurea. Mi hai compreso, Lucio?
Lucio – Ti ho compreso, Pomponio.
Pomponio – Dunque preparati a salutarmi, perché Febo già è dolcemente adagiato sulla chioma di Teti. E saluta sopra tutto il Signore del gesto perfetto, Mithra che ha preso dimora in ogni colle dell'Urbe sapendo che nessun gesto è perfetto come la sua freccia che scava la roccia e ne fa sgorgare acqua, o come il gladio romano-italico che infilza il toro, così come i barbari e i superbi. Perciò ha scelto nelle latebre dell'Aventino il suo campo di battaglia prediletto per contendere “il retaggio dello splendore Romano e le sorti dell'Occidente in una lotta che non è finita, ma forse non comincia veramente che adesso”. E ora Nama, Lucio, Vale.
Lucio – Nama, Pomponio, Vale.
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