Il nuovo padrone di Detroit
Sergio Marchionne affoga nelle braccia di General Holyefield, responsabile del sindacato Uaw per la Chrysler, mentre questo sindacalista afroamericano alto almeno due metri, con due spalle degne di Mike Tyson, gli dice: “Sergio, tua madre e tuo padre hanno fatto un gran bel lavoro!”. Così il Bonanni d'America si rivolge a Marchionne dal parco di Sterling Heights, fabbrica già in odore di chiusura e che oggi, al contrario, si prepara a ospitare un secondo turno e 900 nuove tute blu.
Sergio Marchionne affoga nelle braccia di General Holyefield, responsabile del sindacato Uaw per la Chrysler, mentre questo sindacalista afroamericano alto almeno due metri, con due spalle degne di Mike Tyson, gli dice: “Sergio, tua madre e tuo padre hanno fatto un gran bel lavoro!”. Così il Bonanni d'America si rivolge a Marchionne dal parco di Sterling Heights, fabbrica già in odore di chiusura e che oggi, al contrario, si prepara a ospitare un secondo turno e 900 nuove tute blu. In attesa, magari, di ospitare a costi inferiori “il piano B” se saltasse la trattativa per Mirafiori. Chissà se l'entusiasmo per Marchionne, il salvatore, durerà in casa Uaw anche nel 2012, anno di rinnovo del contratto per gli operai di Detroit. Di sicuro i lavoratori della Chrysler, sia quelli “vecchi” che guadagnano 28 dollari l'ora, sia i neo assunti a metà salario (la stessa busta paga dei “transplants” di Toyota o Nissan), non potranno scioperare: così vuole l'accordo fino al 2015 siglato con il numero uno di Fiat e Chrysler al termine di una trattativa aspra in cui, parola di Steve Rattner, già zar dell'auto per conto del presidente, “Marchionne si comportò da dottor Jekyll e da mister Hyde”. Al punto che Ron Gettelfinger, allora capo dell'Uaw, si rifiutò dopo la firma di stringergli la mano: “Non c'è niente da festeggiare. Ci avete presi per fame”. Eppure anche lui oggi non risparmia elogi a Marchionne. Chissà se un giorno capiterà lo stesso con Susanna Camusso o Maurizio Landini. C'è da dubitarne, anche perché manca in Italia lo sponsor più autorevole, quello capace di far pendere la bilancia dalla parte di Sergio: Barack Obama, il presidente che, contro il parere di molti collaboratori, decise che valeva la pena tentare il salvataggio di Chrysler. Il che equivaleva a giocare la carta Marchionne, l'unico pronto a scommettere il suo prestigio in un'azienda forse più decotta della Fiat di cinque anni prima, quella che il manager aveva accettato di guidare dopo molte esitazioni. Sia per l'Uaw che per la Casa Bianca Marchionne è stata l'ultima spiaggia, dal sapore quasi messianico.
Da allora sono cresciuti altri sponsor di super Sergio, sia a Wall Street, in origine assai scettica, che nella “rust belt”, l'ex polmone industriale americano, convinta che Fiat avrebbe fatto flop. Sentite il governatore dello stato, la bionda e sofisticata Jennifer M. Granholm: “Sterling Heights o Kokomo sono come Lazzaro – dice rivolta a Marchionne, tailleur contro il solito maglioncino blu scuro d'ordinanza – Fabbriche che sembravano spacciate ma, grazie a te, sono risorte”.
Peccato che miss Jennifer, democratica in scadenza di mandato, non abbia potuto correre per il rinnovo alle elezioni di Midterm, vinte dai repubblicani che qui schieravano Rick Snyder, un uomo d'affari con la fama di “secchione duro”, espressione di quell'America che continua a giudicare “un grave errore” il salvataggio di Detroit. Non mancano gli scogli, insomma, sulla strada del Marchionne americano, che comunque conta tanti amici dalle parti dell'Uaw e dell'Amministrazione democratica. Forse troppi, visti i malumori che ispira, tra i Big della finanza e dell'imprenditoria, l'Obama “socialista”.
Ma al ceo di Chrysler e Fiat questa sfida basata sui fatti (“e non sulle chiacchiere, come in Italia”), non dispiace. Anzi. “Ho la sensazione – spiega un amico torinese che lo conosce bene – che Sergio abbia riscoperto a Detroit il gusto di fare business come piace a lui: in maniera diretta, con i numeri piuttosto che con i ghirigori del sistema italiano. E non tornerà più indietro. Il che non significa che voglia mollare Torino. Ma non sarà più lui ad adattarsi agli usi di casa nostra: o riuscirà a lavorare in Italia a modo suo, o tanti saluti”. E' una sfida che Marchionne si è impegnato a giocare, con gli alleati giusti, su tre tappeti di gioco: la fabbrica, cioè relazioni industriali e rilancio dei prodotti; la finanza, ovvero l'appoggio di Wall Street. E, naturalmente, le relazioni con Washington, con l'obiettivo di chiudere la partita delle nozze Fiat-Chrysler, a scanso di equivoci, entro il gennaio del 2013. La speranza, insomma, è che vinca Obama. O che, comunque il vento dei Tea Party non comprometta a metà un'architettura finanziaria e industriale ancora in piena evoluzione. Non a caso Andrew Horrocks, di Credit Suisse, il vero braccio destro finanziario di Marchionne che lo ha voluto con sé ai tempi della trattativa con la Casa Bianca, già lavora al dossier che dovrà portare la Fiat al 51 per cento della Casa americana, liquidando le azioni in mano al Tesoro (un dieci per cento circa) e una parte del pacchetto del sindacato, ansioso di far cassa per sostenere previdenza e sanità di dipendenti e pensionati. E, probabilmente subito dopo, al collocamento della società a Wall Street. Horrocks, già Ubs, che Marchionne ha conosciuto ai tempi della sua avventura ai vertici della banca elvetica, è l'uomo dei numeri e delle relazioni con gli gnomi di Manhattan. Ma lui, super Sergio, non sta con le mani in mano: grazie alle relazioni storiche della Fiat siede ai vertici del Petersen Institute, uno dei think tank democratici più autorevoli, ma non disdegna nemmeno il Brookings Institution. Grazie al Consiglio per le relazioni Italia-Usa ha stabilito un buon rapporto con Sam Palmisano dell'Ibm. Soprattutto, ha già avviato l'operazione di seduzione nei confronti degli analisti che contano, da Morgan Stanley a Ubs, passando per Goldman Sachs. A tutti, nel road show Fiat tra New York e Boston, ha fatto capire che Fiat potrebbe bruciare i tempi: prima salire al 35 per cento di Chrysler come previsto dal contratto, poi restituire i 7 miliardi al Tesoro americano, necessari per poter poi salire al fatidico 51 per cento. Infine, procedere alla quotazione a Wall Street.
Certo, molto dipenderà dai contributi per la ricerca e l'energia pulita, due miliardi circa, che l'Amministrazione Obama dovrebbe versare nelle casse di Chrysler (e di Gm). Quei soldi, assieme a quanto ricavato dal collocamento di una quota di Ferrari, potrebbero bastare a finanziare il matrimonio tra Torino e Detroit. Anche se i termini del contratto potranno cambiare nel corso della corsa. Di sicuro Marchionne si terrà ben stretto il gioiello della “corona”, cioè il Brasile, e le fabbriche in Europa orientale e Turchia. E l'Italia? C'è posto, purché si accettino le regole del gioco, quelle che l'Uaw, dopo qualche mugugno, ha abbracciato senza pentimenti. Prendere o lasciare, ma in fretta, perché il risanamento di due aziende deboli in una volta sola è un'impresa che richiede l'abilità di un acrobata che vola senza rete.
E' una corsa contro il tempo quella che Marchionne l'americano, il workaholic per eccellenza, combatte di persona settimana per settimana, sfruttando i fusi orari per lavorare di più: il tempo in volo tra Torino e Detroit è ben sfruttato, grazie al BlackBerry che permette di impartire ordini secchi, senza discussioni. Arrivato in Michigan, si concede al massimo quattro ore di sonno ed è di nuovo pronto (il jet lag, con questi ritmi, non si sente) per i collaboratori della Baron Wing, l'ala dei tecnici. Perché a Detroit Marchionne ha scelto di stare qui, non nella torre centrale di Auburn Hills, l'immenso quartier generale che Lee Iacocca volle più grande di qualsiasi altro edificio negli Stati Uniti, con l'eccezione del Pentagono. A differenza che a Torino, dove Marchionne guida la macchina Fiat (senza deleghe) dal Lingotto, non da Mirafiori. Dove pure tiene ufficio.
A Detroit super Sergio ha comprato un appartamento a Birmingham, quartiere elegante nei sobborghi della città dell'auto, agli antipodi dagli “Eight miles”, la periferia resa famosa da Eminem. Troppo poco per consolare gli agenti immobiliari della città dell'auto che si aspettavano la riedizione della corsa alla casa dei tempi di Daimler, quando i tedeschi, una volta acquistato il controllo di Chrysler, erano calati in massa a Detroit, salvo ripartire ogni venerdì sera sulla navetta aziendale (un jet da 500 posti) alla volta di Colonia. Niente del genere con gli italiani. Marchionne ha portato con sé una squadra smilza: Pietro Gorlier, responsabile della Mopar, cioè accessori e ricambi; Paolo Ferrero, torinese doc, il mago dei motori di Powertrain; Olivier François, l'uomo del marketing responsabile pure dei marchi italiani; l'inglese Richard Palmer alla direzione finanziaria. Tutto qui, se si esclude il contatto costante con Alfredo Altavilla, oggi numero uno dell'Iveco, il braccio destro che ha tenuto i contatti quotidiani con la Casa Bianca ai tempi della grande trattativa. O i tecnici condannati a far su e giù lungo l'asse Torino-Detroit, a partire da quel Vittorio Massone, responsabile del Wcm, l'organizzazione del lavoro che tanto piace all'Uaw (“Ci penso io a introdurla anche nelle fabbriche della componentistica”, si è offerto il solito Holiefield) tanto quanto è detestata dalla Fiom. Tutto qui. Per il resto, spazio ai manager di casa, a partire da Ralph Gilles, responsabile del marchio Dodge e del centro stile. E, per quanto riguarda i rari weekend, Marchionne ha una sola meta: Toronto, dall'altra parte dei Grandi laghi, dove vive la mamma, la signora Maria Zuccon, e studia il primogenito Tyler, mentre Alessio sta ancora con la moglie, la signora Orlandina, nei pressi di Losanna. Il Canada, la vera terra d'elezione cui Marchionne non sa dire di no. A partire dall'università di Windsor, dove ha preso la prima laurea e dove già fervono i preparativi per il gala in onore dell'ex allievo più illustre con cui festeggiare, il 3 giugno 2011, i cinquant'anni dell'ateneo di fronte a mille invitati. Un'eccezione mondana in mezzo a un tran tran che prevede pochi svaghi: le solite partite a carte; una cena fuori, magari al ristorante Bacco, enclave italiana nel cuore della comunità ebraica locale che, pare, va pazza per lasagne e fettuccine. Più dello stesso Marchionne che da mesi si sottopone, con grande orgoglio, a una cura dimagrante ferrea perché “in cinque anni in Italia sono ingrassato troppo”. Insomma, è l'ora della dieta. In fabbrica e fuori.
Il Foglio sportivo - in corpore sano