La strage di Vibo è il trionfo della terra. E della sua cultura meschina
Due uomini entrano all'imbrunire nel cortile di una masseria in un paese vicino Vibo Valentia, sono armati, sparano forse tutti e due, forse uno solo con due pistole. La mira è ottima, di quelle alimentate dall'odio, cinque persone sono uccise in una sequenza allucinata, prima il padre, poi i quattro figli maschi che si stanno dando da fare attorno all'ovile. La moglie e la figlia femmina non sono in casa in quel momento e si salvano.
Due uomini entrano all'imbrunire nel cortile di una masseria in un paese vicino Vibo Valentia, sono armati, sparano forse tutti e due, forse uno solo con due pistole. La mira è ottima, di quelle alimentate dall'odio, cinque persone sono uccise in una sequenza allucinata, prima il padre, poi i quattro figli maschi che si stanno dando da fare attorno all'ovile. La moglie e la figlia femmina non sono in casa in quel momento e si salvano, un cooperante riesce a nascondersi dietro un cespuglio, è paralizzato dal terrore ma vede tutto.
Non è affare di 'ndrangheta. Le famiglie assassine della montagna attorno a San Luca d'Aspromonte, che pure incarnano l'organizzazione criminale rimasta più a lungo legata alla terra, onore sangue e ricchezze se li giocano ormai nel vasto palcoscenico della finanza globalizzata. Non è nemmeno nuovo Far West, dove anche il crimine più efferato era come nobilitato dallo spirito del tempo, dalla potenza del capitalismo che si dispiegava. In “C'era una volta il west”, ci sono uomini che entrano nella modesta fattoria di un vedovo irlandese e uccidono lui e i suoi tre figli. Persino loro non vogliono terra, la disdegnano, vogliono semmai i beni che porta nel ventre. In particolare uno, l'acqua, perché le locomotive a vapore hanno bisogno di acqua e in quel pezzo di deserto, sulla linea che va verso il Pacifico e il futuro, la sola sorgente nel raggio di duecento chilometri sta proprio lì, in quella fattoria, e il visionario irlandese già vedeva sorgere lì accanto empori, saloon, alberghi, insomma una città, la sua città. Questo era il sogno che volevano rubargli, una città dal nulla, e si capisce che per un sogno così si possa anche uccidere. Ma per un muretto a secco, per una terra usata a pascolo da chi non ne è padrone, per un acro di nuda schifosissima terra, si può ancora uccidere? Evidentemente sì, in Calabria e non solo, anche in Sardegna, recentemente, e in un pezzo di Balcani. E non è soltanto questione di codice barbaricino ancora in vigore.
Non c'è metropoli più pericolosa della campagna. Non c'è cultura più aggressiva, più meschina, più feroce, di quella legata al possesso della terra, all'estensione del dominio sulle cose, sulla “roba”. E non c'è rancore più soffocante, odio più tenace di quelli che nascono dalla terra contesa. In fondo è la stessa molla che spinse paesi potenti a colonizzarne altri, a depredarli in nome della conquista dello spazio vitale, dello sbocco al mare o del posto al sole: è la cultura che vede nella terra e nel territorio un simbolo e una prova della forza d'espansione di una civilizzazione. E' la cultura che regalò il nazionalismo, poi l'irredentismo e poi il revanscismo. Ne siamo usciti denunciando la miseria del mero possesso, della cultura cosiddetta proprietaria e imponendo la superiorità della simulazione, del valore d'uso, del controllo. E oggi che non si muore più per Danzica, non è bello scoprire che si può morire a Scalitti di Filandari, per le stesse ragioni.
Il Foglio sportivo - in corpore sano