Oggi la marcia di un milione

E se in Egitto va a finire come in Iran?

Massimo Boffa

L'interpretazione di quel che sta accadendo in Egitto oscilla tra l'eccitazione rivoluzionaria e il mantenimento dello status quo. In mezzo ci sono gli imbarazzi della comunità occidentale e i ricordi del passato, in particolare della cacciata dello scià in Iran, nel 1979. Massimo Boffa e Carlo Panella erano a Teheran quando scoppiò la rivoluzione che portò all'instaurazione del regime degli ayatollah e oggi leggono quel che accade al Cairo in modo diverso. La minaccia dei Fratelli musulmani, come spiega Giulio Meotti dando voce alle paure di Israele, c'è ed è grande.

Leggi Israele teme che dopo la piazza d'Egitto restino in piedi solo gli islamisti di Giulio Meotti - Leggi Non si vede all'orizzonte un Khomeini egiziano e Al Azhar tace di Carlo Panella

    L'interpretazione di quel che sta accadendo in Egitto oscilla tra l'eccitazione rivoluzionaria e il mantenimento dello status quo. In mezzo ci sono gli imbarazzi della comunità occidentale e i ricordi del passato, in particolare della cacciata dello scià in Iran, nel 1979. Massimo Boffa e Carlo Panella erano a Teheran quando scoppiò la rivoluzione che portò all'instaurazione del regime degli ayatollah e oggi leggono quel che accade al Cairo in modo diverso. La minaccia dei Fratelli musulmani, come spiega Giulio Meotti dando voce alle paure di Israele, c'è ed è grande. Il Foglio cercherà di capire, con interventi e analisi, se il contagio è democratico o se è contagio della Umma islamica.

    Al culmine della rivoluzione iraniana, i seguaci dell'ayatollah Khomeini annunciarono al mondo la propria ideologia geopolitica. Il nemico numero uno erano naturalmente gli Stati Uniti, il Grande Satana, il grande corruttore, e poi Israele, che occupava i luoghi santi dell'islam. Ma questo, all'epoca, si traduceva soprattutto in gesti simbolici: ambasciate da conquistare, bandiere da bruciare. Gli autentici e immediati avversari dell'internazionale islamista, quelli verso i quali si indirizzava direttamente la predicazione rivoluzionaria, erano i regimi arabi e musulmani. Dal Marocco all'Iraq, Teheran incitava i popoli a rovesciare i propri despoti corrotti e infedeli. Da trent'anni a questa parte, mai come oggi questo programma sembra essere arrivato all'ordine del giorno.
    I fatti della Tunisia sono stati il detonatore, ma è l'Egitto la vera posta in gioco. In Tunisia, paese le cui élite si sono dimostrate compatte e in cui il movimento islamico non è mai stato forte, è probabile che il regime, liberatosi di Ben Ali, riesca a mantenere il controllo della situazione. Se ci si riuscisse anche in Egitto, ogni persona sensata tirerebbe un sospiro di sollievo. Ma per ora non sembra il caso. Anzi, si staglia minacciosa sopra le piramidi l'ombra di una rivoluzione egiziana, il disastro più grande dopo quella iraniana di 30 anni fa.

    Del resto, non è forse proprio in Egitto che tutto è cominciato? E' in Egitto che, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, si è venuta per la prima volta distillando la miscela esplosiva che avrebbe successivamente infiammato l'islam, trasformando quello che era essenzialmente un credo religioso nella più aggressiva ideologia politica contemporanea. Se si dovesse indicare l'autore che, più di ogni altro, ha rivoluzionato la moderna cultura musulmana, al punto da diventare il principale ispiratore di tutte le formazioni del jihad, da al Qaida fino a Hamas, passando per Khomeini, non vi è dubbio che si tratti di Sayyid Qutb (1906-1966), militante egiziano dei Fratelli musulmani, fatto impiccare da Gamal Abdel Nasser. A lui si deve l'idea fondamentale, che da allora non ha fatto che diffondersi e radicalizzarsi, secondo cui l'autentico islam non è quello che viene devotamente, ma esteriormente, rispettato nei paesi che si dicono musulmani, ma soltanto quello che diventa regime politico, incarnandosi nella legge di Dio, nella sharia. Per questo Qutb esortava i “veri musulmani” a organizzarsi in un'avanguardia che non si limitasse alla predicazione ma passasse all'azione. E che si impegnasse in una guerra santa per creare una società autenticamente islamica, combattendo non soltanto contro il “nemico lontano”, gli infedeli, ma anche contro il “nemico vicino”, cioè i regimi fintamente musulmani. Questa idea, variamente rielaborata, aggiornata, dissimulata, resta alla base del pensiero dei Fratelli musulmani. In un certo senso, l'Egitto è, per la rivoluzione islamica, quel che la Germania era per la rivoluzione comunista: la culla e il luogo di elezione.

    Non è vero che le rivoluzioni scoppiano perché inevitabili: ci sono errori da una parte e mosse azzeccate dall'altra. In questi giorni, il peggiore incubo di Barack Obama dovrebbe essere di passare alla storia come un nuovo Jimmy Carter. Durante la crisi iraniana del 1978-79, Carter fece ciò che Obama sta facendo adesso: appoggiare il governo, ma esercitare pubbliche pressioni sul regime esortandolo a riformarsi. Allora ne risultò l'impressione che, di fatto, l'America avesse abbandonato il suo alleato, lo scià, e che stesse lavorando per una soluzione “democratica”, alla prova dei fatti rivelatasi del tutto improvvisata. Il rischio è che oggi possa accadere lo stesso. E' quel che va ripetendo, in queste ore drammatiche, un analista attento come l'israeliano Barry Rubin, direttore del Global Research in International Affairs Center. “Riguardo la rivolta in Egitto, non c'è una buona politica per gli Stati Uniti, ma l'Amministrazione Obama sembra stia adottandone una vicina all'opzione peggiore”, scrive sul suo blog (www.rubinreports.blogspot.com). L'America, dice, dovrebbe puntare, al di sopra di ogni altro obiettivo, sulla sopravvivenza del regime egiziano, magari adoperandosi discretamente, dietro le quinte, per alcuni cambiamenti. E invece, insiste Rubin, sta mostrando pubblicamente il proprio appoggio alle “riforme” e alla “democrazia”, sperando di ingraziarsi i futuri governanti. In tal modo, conclude Rubin, demoralizza il proprio alleato e non accumula alcun credito verso l'eventuale potere che verrà, il quale rinfaccerà comunque a Washington l'appoggio pluridecennale al regime di Hosni Mubarak.

    La prospettiva minacciosa, che ogni attore responsabile dovrebbe prendere in altissima considerazione, è che, così facendo, si acceleri la dissoluzione del regime egiziano, creando un vuoto di potere che soltanto gli islamici, prima o poi, potranno colmare. La retorica del popolo che caccia il tiranno è una di quelle stucchevoli frivolezze piacevoli da leggere sulla carta, ma che purtroppo hanno ben poco a che fare con la realtà. Il guaio è che proprio così molta opinione pubblica occidentale (e dunque i relativi governi), nonché parte dei protagonisti degli eventi, si rappresentano quel che sta succedendo. E niente è più sinistramente simile al precedente iraniano di questa atmosfera di entusiasmo che circonda i rivoltosi egiziani.

    Gli ottimisti, di cui c'è sempre grande abbondanza,
    mettono l'accento sul fatto che le proteste sono nate spontanee, che il movimento si è alimentato da solo, grazie alla rete, a Twitter, a Facebook (a Teheran erano le cassette registrate con i discorsi antiscià di Khomeini), che nessuna organizzazione ha incanalato i manifestanti egiziani verso obiettivi partigiani. Ma proprio questo dovrebbe essere inquietante. In assenza di forze strutturate, nel caso di un vuoto di potere, saranno i più organizzati e chi sa quel che vuole, cioè gli islamici, ad assumere la leadership. E' vero, per ora i Fratelli musulmani hanno adottato un basso profilo: partecipano al movimento anti Mubarak ma non cercano di mettersi alla sua testa. In primo piano compaiono personaggi che non mancano mai nelle fasi nascenti delle rivoluzioni (i Kerenskij, i Bakhtjar, gli ElBaradei), che rappresentano bene l'illusione generosa dell'unità popolare e del lieto fine. Ma, se arriva il tempo della radicalizzazione, costoro sono destinati, prima o poi, a essere travolti dagli eventi. In Iran passarono mesi, dopo la caduta dello scià, prima che tutte le altre opzioni politiche venissero sconfitte dagli islamici khomeinisti; a Pietrogrado durò da febbraio a ottobre.

    Che il regime di Mubarak fosse dispotico e corrotto
    non vi è dubbio alcuno, come dubbio non vi era a proposito della monarchia di Reza Pahlevi. Altrettanto autentica e generosa è – ed era – la passione delle folle del Cairo e di Teheran, assetate di libertà e di giustizia. Ma, quando un regime viene trascinato nel fango, è come una pentola in ebollizione che sia improvvisamente scoperchiata: si rischia di rimanere ustionati. Fuor di metafora, se il regime egiziano collassa, chi prenderà il suo posto? Oggi in Egitto non ci sono forze moderate organizzate. L'unica forza organizzata (a parte l'esercito) sono i Fratelli musulmani, che godono nel paese di un seguito popolare. Per questo “libertà” e “democrazia” suonano come prospettive tutt'altro che rassicuranti. L'esperienza che il mondo musulmano ne ha fatto negli ultimi decenni è un precedente che deve, quanto meno, far riflettere gli entusiasti. In Iran, trent'anni fa, il popolo fece crollare la monarchia dello scià con i risultati che sappiamo. In Libano le elezioni hanno portato al potere Hezbollah. Nella Striscia di Gaza ha vinto Hamas. In Algeria, negli anni Novanta, il successo degli islamici alle elezioni scatenò la guerra civile. In certi casi, la democrazia non è la soluzione. E' il problema.

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