Il "giorno della rabbia" a Sana'a
Per evitare una rivolta anche in Yemen, Obama invita Saleh a Washington
Dal nostro inviato. Nei palazzi arabi si consultano le istruzioni per disinnescare le rivoluzioni prima che sia tardi, perché è chiaro che quando in milioni si raccolgono contro di te per le strade ormai è troppo tardi e non puoi più fare nulla – a parte scatenare le forze armate, ma è da vedere che siano leali e che alla fine funzioni davvero. Lo Yemen non è la Tunisia e nemmeno l'Egitto, paesi del primo mondo arabo così luccicante e così distante da qui, ma è chiaro che le immagini da piazza Tahrir del Cairo che arrivano in rotazione continua da un mezzo centinaio di canali arabi altrui stanno gelando il cuore del presidente Ali Abdullah Saleh, nella casa vicino alla Città vecchia.
Sana'a, dal nostro inviato. Nei palazzi arabi si consultano le istruzioni per disinnescare le rivoluzioni prima che sia tardi, perché è chiaro che quando in milioni si raccolgono contro di te per le strade ormai è troppo tardi e non puoi più fare nulla – a parte scatenare le forze armate, ma è da vedere che siano leali e che alla fine funzioni davvero. Lo Yemen non è la Tunisia e nemmeno l'Egitto, paesi del primo mondo arabo così luccicante e così distante da qui, ma è chiaro che le immagini da piazza Tahrir del Cairo che arrivano in rotazione continua da un mezzo centinaio di canali arabi altrui stanno gelando il cuore del presidente Ali Abdullah Saleh, nella casa vicino alla Città vecchia. Non si sa mai. E se poi succede? Scocca l'ora estrema delle contromisure, sia di propaganda sia di politica reale.
Sulla Sessantesima strada che taglia la capitale fino ai quattro minareti monumentali della moschea che porta il nome del presidente, ieri mattina passava un corteo sferragliante di manifestanti prezzolati a favore di Saleh. Fischietti, altoparlanti e tamburi per garantirsi un buon volume d'uscita a dispetto del numero dei partecipanti, pochini. Ai lati della strada il coro dei commenti è dovunque lo stesso: “Quanto li avranno pagati, per rendersi così ridicoli?”. L'indolenza yemenita è già messa a dura prova dall'inseguire i due dollari di sopravvivenza che toccano in media ogni giorno a ciascuno, sembra poco credibile che qualcuno imbracci un cartello e sfili per aiutare un potere che comanda senza interruzioni da trentadue anni.
Oggi è invece il “giorno della rabbia” anche per lo Yemen e da giorni corre voce che sarà la protesta più grande mai organizzata contro Saleh. Giovedì scorso l'opposizione ha portato ventimila persone in quattro strade diverse della città, ma oggi il punto unico di raccolta è l'evocativa piazza Tahrir, piazza della Liberazione, come quella al centro della rivoluzione cairota. L'esercito ha acconsentito, ma circonderà la zona con un cordone di soldati. Di solito è un guazzabuglio di ambulanti, di merce cinese e di mototaxi specchiati in qualche vetrina pulita ma vuota, e oggi promette di battere i pur gagliardissimi standard yemeniti in fatto di disordine. Una settimana fa il colore predominante della manifestazione era il rosa, perché c'è una scala progressiva di colori, dal rosa – i sit in pacifici – al rosso: la rivolta violenta.
“Qui non è l'Egitto, ogni yemenita è più che un soldato e circolano trenta milioni di armi per 23 milioni di abitanti, se si arriva allo scontro a fuoco sarà un'ecatombe. E poi c'è il sistema tribale delle cabile, se i soldati ammazzeranno un manifestante tutta la sua cabila si sentirà impegnata a vendicarne la morte”, ti spiegano a ogni angolo di strada. Un ordine recente del governo proibisce di girare con un'arma per le strade della capitale, “se ti vedono te la ritirano”, ma è una misura blanda appena sufficiente a evitare sparatorie nel traffico. A venti minuti da piazza Tahrir c'è il mercato di al Jumana, dove si può comprare liberamente un fucile d'assalto di fabbricazione sovietica per 160 euro. Le cabile più armate e grandi attorno alla capitale sono quelle degli Hajid e dei Baqil. I primi sono in prevalenza contro Saleh, i secondi sono più numerosi – e più rozzi, insinuano gli yemeniti metropolitani – e per ora si limitano a osservare la situazione. Ma tutto lascia credere che sia meglio per il governo non provocarne l'indifferenza.
Per questo, per evitare che una piazza di manifestanti sinceramente democratici – ma che nascondono un lanciagranate nel bagagliaio della macchina e hanno un cugino fuori città disposto a morire per vendicare il sangue del clan – esca fuori di controllo, ieri il presidente Saleh ha annunciato un grande pacchetto di concessioni. Ha dichiarato in Parlamento che non si candiderà alle prossime elezioni del 2013 – una retromarcia clamorosa rispetto al mese scorso, quando aveva detto che la Costituzione sarebbe stata presto modificata senza il consenso delle opposizioni per permettergli un terzo mandato. Ha anche annunciato – a chi lo aspettava al varco – che non candiderà suo figlio Ahmed, oggi capo della Guardia repubblicana modellata su quella dell'amico Saddam Hussein, il rais iracheno giustiziato nel dicembre 2006. Infine ha detto che saranno riaperti i registri degli aventi diritto al voto, già chiusi con l'esclusione di almeno un milione e mezzo di cittadini yemeniti troppo simpatizzanti con l'opposizione. La riapertura dei registri – anche se è un favore agli avversari – elimina del tutto la possibilità che le elezioni parlamentari si tengano prima di giugno. L'opposizione non crede a una parola e non ha ritirato la manifestazione.
Infine, considerato che in questo momento l'esercito egiziano a braccia conserte sta lasciando il presidente Mubarak affogare nel mare dell'opposizione scesa in piazza, Saleh ha aumentato lo stipendio di militari e dipendenti pubblici di 47 dollari al mese, un'enormità. Il provvedimento è inutile per la maggioranza della popolazione, ma assicurerà una maggior tenuta e lealtà della macchina statale in caso di scossoni.
Secondo fonti del Foglio, la spinta decisiva alle concessioni di Saleh è arrivata dalla Casa Bianca, che in queste ore saluta a denti stretti il coraggio dei rivoltosi egiziani ma preferiva la situazione come era prima e non vuole veder cadere anche lo Yemen, pedina essenziale per troppi motivi: il primo è la presenza del gruppo più pericoloso di al Qaida. Sarebbe meglio rimandare il collasso del potere centrale, già oggi miserrimo e limitato, pensano a Washington. In cambio, il presidente americano Barack Obama avrebbe promesso a Saleh un incontro ufficiale alla Casa Bianca. Se riuscirà a governare una transizione ordinata, il presidente potrà fare le valigie per una visita a Pennsylvania Avenue, dove stanno dimostrando di essere molto generosi con lui – 250 milioni di dollari in aiuti militari previsti per il 2011. C'è chi sta facendo valigie più tristi e definitive, è il messaggio che Hillary Clinton, qui a Sana'a tre settimane fa, deve aver fatto pervenire.
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