Ecco perché la gente del Cairo non invidia i cugini di Teheran

Amy Rosenthal

“Né l'esercito, né Mubarak accetteranno che l'Egitto finisca nelle mani del suo nemico più implacabile, l'islamismo radicale”. Lo dice al Foglio Stephen Cohen, presidente dell'Institute for Middle East Peace & Development e consigliere della Casa Bianca sul medio oriente. Negli ultimi trent'anni, Cohen ha lavorato per facilitare i negoziati nell'area mediorientale, da consulente del National Intelligence Council. Ha contribuito anche al celebre discorso che il presidente americano, Barack Obama, ha tenuto nel viaggio al Cairo del 2009.

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    “Né l'esercito, né Mubarak accetteranno che l'Egitto finisca nelle mani del suo nemico più implacabile, l'islamismo radicale”. Lo dice al Foglio Stephen Cohen, presidente dell'Institute for Middle East Peace & Development e consigliere della Casa Bianca sul medio oriente. Negli ultimi trent'anni, Cohen ha lavorato per facilitare i negoziati nell'area mediorientale, da consulente del National Intelligence Council. Ha contribuito anche al celebre discorso che il presidente americano, Barack Obama, ha tenuto nel viaggio al Cairo del 2009.

    Cohen è in costante contatto con i vertici militari del Cairo: la scorsa settimana è stato fra i primi stranieri a sapere che il rais egiziano, Hosni Mubarak, avrebbe annunciato presto l'intenzione di lasciare la guida del paese. “In almeno venti dei suoi trent'anni al potere – dice l'analista – Mubarak ha usato la sua leadership per condurre una battaglia brutale contro l'islamizzazione dell'Egitto. Quando il suo vice, Omar Suleiman, sarà in grado di spingere i negoziati con i manifestanti sino a un accordo di transizione politica, avremo la data delle prossime elezioni, che si potrebbero tenere già prima di settembre. La composizione del Parlamento cambierà, la Costituzione sarà modificata, la legge marziale sarà rimossa e il presidente avrà meno poteri”. Cohen nota che, con il discorso di martedì sera, il presidente Hosni Mubarak “ha fatto l'ultimo tentativo di proteggere la propria dignità politica e quella della sua Amministrazione. Questo tentativo, tuttavia, non è servito a ottenere il rispetto della piazza. Mubarak vuole salvare le apparenze, vuole dare l'idea che non è stato cacciato ma che se ne andrà alla fine del suo mandato, come lui stesso ha annunciato la scorsa settimana”.

    Per portare a termine il suo piano, osserva Cohen, il rais si sta servendo anche dell'esercito: “Il fatto che i militari abbiano rifiutato di usare la forza contro la folla rappresenta un successo per i leader dei manifestanti. La scelta dell'esercito ha un ruolo importante del piano di Mubarak per portare i rivoltosi allo sfinimento. La mancanza di riserve alimentari, il declino drammatico dell'economia, la chiusura delle banche e i limiti di comunicazione stanno iniziando a produrre una crisi che potrebbe obbligare la classe media a mobilitarsi contro i manifestanti”. Le velleità di Mubarak, però, sono state presto smontate dalla scelta del presidente americano, Barack Obama, che ha chiesto una transizione a partire da subito. “Le parole di Obama hanno fatto capire ai generali che stanno rischiando di alienarsi il favore americano tanto da vedersi negare gli aiuti economici, l'invio di nuove forniture militari e l'addestramento che le loro truppe ricevono durante le esercitazioni congiunte con gli Stati Uniti – dice Cohen – Io credo che Mubarak abbia capito la paura dell'esercito ed è per questo che ha riattivato la polizia segreta, cercando di produrre un nuovo esempio di manifestanti a noleggio, un classico egiziano per garantire supporto al governo”.

    “Le violenze di questi giorni in Egitto avranno effetti contraddittori – sostiene Stephen Cohen – Da una parte rafforzeranno Mubarak, che potrà dimostrare che le manifestazioni possono portare al caos; dall'altra costringeranno la Casa Bianca a essere più insistente con il presidente egiziano, forzandolo a lasciare il potere”. L'esercito, secondo Cohen, è l'attore fondamentale nella mediazione del vicepresidente egiziano, Omar Suleiman: “Il sostegno dei militari a un piano per la transizione è essenziale. Bisogna prevenire uno scontro tra le forze armate e i giovani che manifestano. Lo stratagemma di Mubarak, che cerca di usare sostenitori fatti in casa per aizzare lo scontro con i manifestanti, non ha avuto successo perché i rivoltosi hanno di gran lunga superato gli uomini del presidente in numero e in energie”.

    Stando alle fonti egiziane di Cohen, “c'è ragione di credere che Suleiman abbia fatto un accordo con il nuovo ministro del Tesoro per cambiare drasticamente le politiche del suo predecessore. I resoconti di persone bene informate dicono che presto saranno cancellati tutti i dazi sulle importazioni di cibo. Questa misura ridurrebbe gli effetti della crisi economica, rafforzando la posizione dei manifestanti e quella del vicepresidente Suleiman”. Riguardo alle perplessità di molti osservatori sul ruolo dei Fratelli musulmani, Cohen ripete che “in Egitto non finirà come in Iran, quella che vediamo in piazza non è una società che sogna di diventare uno stato islamico. Sebbene siano generalmente buoni musulmani o buoni cristiani, gli egiziani hanno l'orgoglio di definirsi ‘il primo stato arabo moderno' e non vogliono certo mettere a rischio i possibili benefici delle loro azioni rivoluzionarie consegnandoli nelle mani di persone che non condividono buona parte dei loro obiettivi. I giovani, in particolare, non hanno alcun interesse a perdere la loro chance per un futuro decente, che potrebbe essere messo in pericolo con l'islamizzazione della società e della cultura. O, ancora peggio, con il ritorno dell'era dell'intensa rivalità militare con Israele. Sanno che le due cose sono state un disastro per i loro fratelli e per i loro padri, molti dei quali hanno perso la vita nelle inutili battaglie o hanno sprecato i loro anni giovanili combattendo attorno al Canale di Suez, in carri armati che rischiavano di saltare sotto i colpi dell'aviazione israeliana o dell'artiglieria”. Secondo Cohen, neanche i vicini israeliani dovrebbero essere troppo preoccupati delle rivolte di questi giorni in Egitto, perché “molto difficilmente la nuova leadership del Cairo, sostenuta dalle nuove generazioni, metterà in discussione i trattati di pace con Israele. Gli israeliani non sono gli unici a volere la fine dei conflitti in medio oriente: ci sono anche gli egiziani. Certo – osserva l'analista – il governo di Netanyahu avrebbe voluto Mubarak presidente fino a centovent'anni, perché gli israeliani non sono abbastanza sicuri che il successore del rais rispetti gli accordi tra Gerusalemme e il Cairo”.

    Secondo Cohen, questa sfiducia ha iniziato a generarsi durante la visita a Gerusalemme dell'ex presidente egiziano Anwar Sadat, nel 1977, quando “gli israeliani credevano che le decisioni fossero prese esclusivamente da lui e che il popolo non le condividesse. Quando Sadat disse ‘mai più guerra', gli israeliani credevano che Sadat stesse parlando a loro, per convincerli. In realtà, il presidente egiziano stava cercando di mandare questo messaggio alla propria gente, agli egiziani: non voleva altre guerre contro Israele. La classe media del Cairo non chiedeva certo che i giovani passassero tutta la loro vita a imparare come attraversare il Canale di Suez, e il presidente Sadat doveva rispondere a questo malcontento. Gli israeliani hanno trascurato l'eco interna della decisione di Sadat, hanno sempre pensato che fosse semplicemente una rottura da tutta quella che era stata la tradizione del mondo arabo fino a quel momento”.

    Il pericolo del contagio innescato dalle rivolte di gennaio a Tunisi potrebbe mettere in pericolo altri regimi nella regione. Cohen ritiene che, questa volta, “gli effetti delle proteste egiziane si faranno sentire maggiormente nelle società che hanno una politica simile a quella del Cairo nei confronti degli Stati Uniti, che danno spazio al libero mercato e promuovono un'educazione secolarizzata. Per questo, credo che il pericolo maggiore sia in Giordania, dove il re ha sfiduciato il governo nella speranza di prevenire manifestazioni di piazza ad Amman. La Siria è troppo incline a usare la forza bruta contro qualunque minaccia al regime, e i siriani non possono dimenticare quando il padre dell'attuale presidente, Bashar el Assad, decise di usare l'artiglieria e i carri armati per il massacro nella città di Hama, centro delle trame sunnite contro la sua autorità”.
    Cohen sostiene che le richieste americane di una transizione rapida e democratica siano legittime. “Mi preoccupa, però, il modo in cui confondiamo la democrazia con elezioni il più presto possibile – avverte Cohen – L'abbiamo fatto una volta con i palestinesi e stiamo ancora cercando di gestire i risultati di quelle elezioni, che hanno portato al potere Hamas. Dobbiamo arrivare a una struttura che renda possibile un voto in cui ci siano forze non fondamentaliste, organizzate a sufficienza per condurre una campagna elettorale decente. Ci deve essere un processo che porti una serie di candidati credibili a emergere e a contendersi la presidenza. Se rinunciassimo a fare questo, ci prenderemmo un grosso rischio. Abbiamo visto già abbastanza volte che una scommessa di questo tipo è spesso destinata a fallire”.

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