Qui si spiega perché la libertà funziona meglio se ci sono i fucili
Libertà è caro nome. Che però suona meglio quando ci sono i fucili a difenderla. Sennò l'inno alla gioia può diventare canto di morte. E' l'insegnamento delle rivoluzioni o, come pare si dica ora, dei “regime change” del passato. E della storia stessa delle democrazie. Eppure nelle analisi delle cancellerie occidentali, tale evidenza è come scomparsa. Nessuno parla di uso della forza per aiutare il popolo egiziano, nessuno evoca il diritto di ingerenza umanitaria. Qualcuno ha addirittura proposto un'ingerenza all'incontrario. L'incauta Michèle Alliot-Marie, ministro degli Esteri francese, pretendeva di mettere la tecnologia e l'intelligence del suo paese a disposizione di Ben Ali.
Leggi Ecco perché la gente del Cairo non invidia i cugini di Teheran - Leggi Non è un paese per strangers - Leggi Europa, sbarco al Cairo
Libertà è caro nome. Che però suona meglio quando ci sono i fucili a difenderla. Sennò l'inno alla gioia può diventare canto di morte. E' l'insegnamento delle rivoluzioni o, come pare si dica ora, dei “regime change” del passato. E della storia stessa delle democrazie.
Eppure nelle analisi delle cancellerie occidentali, tale evidenza è come scomparsa. Nessuno parla di uso della forza per aiutare il popolo egiziano, nessuno evoca il diritto di ingerenza umanitaria. Qualcuno ha addirittura proposto un'ingerenza all'incontrario. L'incauta Michèle Alliot-Marie, ministro degli Esteri francese, pretendeva di mettere la tecnologia e l'intelligence del suo paese a disposizione di Ben Ali, presidente tunisino che nemmeno due giorni dopo sarebbe fuggito con moglie e forzieri. La lavata di capo del presidente Sarkozy non ha sanato il vulnus. Questo per dire quanto le democrazie occidentali siano state prese in contropiede dall'incendio: nessuno l'ha previsto, nessuno l'ha sentito arrivare. E ora si naviga alla cieca, atterriti come economisti di fronte alla crisi finanziaria. In Tunisia è bastato un mese per far crollare il regime, nemmeno trenta giorni da quel 17 dicembre in cui il giovane Mohamed Bouazizi, si immola con il fuoco e innesca la rivolta. Ci vorrà ancora tempo per sradicare del tutto il vecchio sistema di potere ma le ex opposizioni sembrano fiduciose. Si ripromettono di costruire democrazia a partire dalla Costituzione del 1957 che, pur sfigurata da Habib Bourguiba con l'istituzione della presidenza a vita, contiene principi di laicità, di uguaglianza dei cittadini indipendentemente dalla religione, dal sesso, dall'etnia, quanto basta a farne un baluardo contro la sharia e i tentativi di fare della legge islamica fonte ispiratrice del diritto.
Il logoramento del regime e la rapida vittoria del popolo non hanno però impedito che ci fossero vittime, più di 200 morti, tanti, troppi ma pur sempre un numero tollerabile per una grande rivoluzione spontanea che, come ha scritto sul Monde l'islamologo Mahmoud Hussein, ha abbattuto “lo stato dispotico moderno, rifiutato lo stato teologico medievale e mantenuto una netta distinzione tra il politico e il religioso”. Ma la crisi egiziana appare di ben altre dimensioni. E' un paese che ha imponenti forze di polizia e l'esercito più agguerrito e meglio preparato della regione, ottantacinque milioni di abitanti di cui più della metà giovani con meno di venticinque anni e sacche estese di povertà, con un reddito pro capite di 2.700 dollari contro 4.100 della Tunisia. Le grandi democrazie premono sul regime perché la transizione abbia inizio subito, ma non hanno risposte in caso di scenari catastrofici: una guerra civile, un colpo di stato militare certamente più insostenibile della trentennale autocrazia di Hosni Mubarak, o infine l'infiltrazione massiccia dell'islamismo radicale, come temono in molti.
Due popoli hanno già detto eroicamente cosa pensassero dei loro governanti riprendendosi l'iniziativa politica con la mobilitazione di strada. Hanno più che mai bisogno del sostegno dell'occidente che invece non sa bene che fare. E' un male antico, il nostro. Il Foreign Office e il Quai d'Orsay, braccia dei due colonialismi più potenti fino alla fine della seconda guerra mondiale, hanno sostenuto qualsiasi regime garantisse stabilità regionale e certezza del quadro strategico. Un fallimento da cui la diplomazia americana non si è discostata fino a quando è diventato egemone il movimento dei neoconservatori. Ma l'idea di esportare la democrazia, se necessario con le armi, si è azzoppata: i risultati sono apparsi incerti e contraddittori, non all'altezza del prezzo, non solo economico, da pagare.
Ora le democrazie sono nude. Senza dottrina né teoria. Non hanno nemmeno diritto all'errore, come a Suez o a Teheran. Resta la fermezza sui principi, il voler chiamare un dittatore “un dittatore”, scaricando però il problema sulle spalle di un popolo inerme. Accade quando la forza non c'è più. Nemmeno per mettere in pratica quello che ai tempi di Roma era considerato il solo modo per temperare l'autocrazia, la libertà di regicidio.
Leggi Ecco perché la gente del Cairo non invidia i cugini di Teheran - Leggi Non è un paese per strangers - Leggi Europa, sbarco al Cairo
Il Foglio sportivo - in corpore sano