Oggi le piazze dello Yemen aspettano il loro Fiorello
Dal nostro inviato. Può darsi che i Fratelli musulmani guatino nell'ombra – o anche alla luce del giorno – per papparsi i frutti maturi della rivoluzione araba, se matureranno davvero. E può darsi anche che l'ondata di cambiamento apra la strada a un altro Iran 1979, quando i khomeinisti fanatici della teocrazia presero il posto dello scià corrotto. Può darsi: ma, mentre temiamo un futuro da 1979, il presente è già da Iran 2009, perché il governo del Cairo – dopo le elezioni dello scorso novembre macchiate da brogli – in una settimana ha ucciso 250 cittadini disarmati nelle strade e manda le sue squadracce a picchiare i manifestanti.
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Sana'a, dal nostro inviato. Può darsi che i Fratelli musulmani guatino nell'ombra – o anche alla luce del giorno – per papparsi i frutti maturi della rivoluzione araba, se matureranno davvero. E può darsi anche che l'ondata di cambiamento apra la strada a un altro Iran 1979, quando i khomeinisti fanatici della teocrazia presero il posto dello scià corrotto. Può darsi: ma, mentre temiamo un futuro da 1979, il presente è già da Iran 2009, perché il governo del Cairo – dopo le elezioni dello scorso novembre macchiate da brogli – in una settimana ha ucciso 250 cittadini disarmati nelle strade e manda le sue squadracce a picchiare i manifestanti. Ahmadinejad ha le sue milizie bassiji, l'Egitto ha i cammellieri con le fruste.
Lo Yemen è la scena più adatta per guardare da vicino i singulti rivoluzionari nel mondo arabo: e sono rivolte di poveri, esasperati dalle proprie condizioni di vita e ingelositi dalla visione incessante della ricchezza altrui. Per ora la protesta si sta allargando al grido di “vogliamo la pagnotta e anche qualcosa di più”, non di “Dio è il più grande”. Sana'a è la scena più adatta alle osservazioni per la semplice ragione che se gli yemeniti sognassero davvero una sterzata islamista qui, a differenza dell'Egitto sorvegliatissimo, non avrebbero che da prendere l'autobus e andare nella vicina provincia di Mariib, a un'ora di distanza dalla capitale, e arruolarsi sul serio con al Qaida – nel 2004-2005, durante la guerra in Iraq, l'hanno fatto in molti, gli yemeniti erano uno dei contingenti stranieri più numerosi a combattere gli americani.
Non succede e non lo fanno perché le loro aspirazioni sono altre. Il 95 per cento del cibo deve essere importato da fuori. Nella terza settimana di gennaio il prezzo del grano è aumentato del 25 per cento rispetto al gennaio dell'anno scorso, e l'andamento delle importazioni di grano e farina è in costante e disperante aumento: lo Yemen è sempre più dipendente e negozia anno per anno la propria sopravvivenza sui mercati stranieri. Le inondazioni disastrose in Australia, uno dei maggiori produttori del grano comprato dallo Yemen, sono state una pessima notizia. Non che l'Egitto sia messo molto meglio: uno dei primi provvedimenti che i democratici egiziani hanno chiesto alla Casa Bianca per dimostrare la buona volontà americana è garantire tre mesi di scorte di farina, per calmierare il mercato impazzito e tranquillizzare le ansie degli egiziani. Chi teme l'avvento di nuovi nemici dovrebbe contare tra i tanti e diversi fattori anche questo, che l'Egitto e lo Yemen (se in Yemen cambiasse mai qualcosa) sono paesi quasi senza petrolio, dipendenti dalla benevolenza commerciale altrui.
Giovedì le migliaia di manifestanti arrivate nel centro di Sana'a avevano tutta l'aria di essere in attesa non del loro Khomeini, ma del loro Fiorello. In attesa di benessere, di beni di consumo che lampeggiano vividi e quasi a portata di mano sulle televisioni del vicino, di un dopoguerra definitivo che non arriva mai, e, perché no, di costumi sociali più rilassati. Se provi a parlargli di Osama bin Laden ti guardano come un imbecille. “Sono in piazza perché sono stanco di come vivo – dice Osama, un altro – e sono stanco che i miei due figli debbano vivere come me”. Se chiedi a quale paese vorrebbero assomigliare, rispondono tutti: “La Turchia”. Non la vicina Arabia Saudita che galleggia sui petrodollari, non l'Iran che sfida l'occidente e Israele, ma la Turchia, che tra tutti i paesi della regione è il più moderato (senza per questo essere la Svizzera) e il meno dipendente dalle fluttuazioni delle commodities. “Assub. Urid. Muskat. Al Nidam”, ruggisce la folla. “Il popolo vuole la caduta del sistema”. Sembra uno slogan islamista?
Alla guida delle proteste yemenite c'è il partito islamico, al Islah, ma il suo capo carismatico è una donna, Tawakkul Karman. Arriva minuta in manifestazione, a volto scoperto – come nessuna donna qui – sotto uno scialle blu, con rossetto vistoso e unghie delle mani pure rosse. La settimana scorsa gli agenti in borghese di Saleh l'hanno caricata su una macchina per strada, ma il giorno dopo l'hanno rilasciata: lei era stata ricevuta dalla Clinton durante la visita del segretario di stato americano tre settimane fa, non sta bene far sparire in pieno giorno una interlocutrice di Washington. “Non voglio un governo islamico – dice – voglio che quando Saleh cadrà ci sia un sistema secolare”.
Per abbracciare con una sola occhiata le migliaia di manifestanti, la scelta migliore è andare sui tetti dei palazzi. Un negoziante gentile apre il cancelletto di un edificio che dà sulla strada, si gira per lunghe passatoie esterne, si entra finalmente nelle scale interne. Fuori rimbombano gli “Assub. Urid. Muskat…”, dentro è tutto vuoto e silenzioso. Ma oltre la porta che comunica con il tetto, sorpresa, ci sono i soldati di Saleh con i fucili a tracolla. Si tengono lontano dal parapetto di cemento per non essere visti dal basso e sono comandati da un funzionario in borghese dell'Ufficio della sicurezza politica, uno dei quattro servizi creati dal governo per tenere sotto controllo il paese. Anche loro osservano. Su altri tetti distanti, altri soldati nascosti stanno a gambe incrociate sotto il sole.
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