In uscita oggi il musical "Burlesque"

Il culo intelligente

Mariarosa Mancuso

Nel burlesque devi lasciarli con un po' di appetito, gli spettatori. Non gli metti tutto l'arrosto sul piatto”. Il consiglio arriva da Tessie, collega più esperta della debuttante Rose Lee, assieme a una mossa decisa che fa scendere il gonnellino hawaiano sui fianchi lasciando scoperto l'ombelico. Per coprire l'indecenza – che non era ammessa sui palcoscenici più di quanto fosse tollerata a Hollywood – fa comodo un bijoux a forma di pera applicato con la colla.

    Nel burlesque devi lasciarli con un po' di appetito, gli spettatori. Non gli metti tutto l'arrosto sul piatto”. Il consiglio arriva da Tessie, collega più esperta della debuttante Rose Lee, assieme a una mossa decisa che fa scendere il gonnellino hawaiano sui fianchi lasciando scoperto l'ombelico. Per coprire l'indecenza – che non era ammessa sui palcoscenici più di quanto fosse tollerata a Hollywood, i fianchi di Carmen Miranda ondeggiavano, la pancia tremolava, il bottoncino restava nascosto da gonne a vita esageratamente alta o da body color carne – fa comodo un bijoux a forma di pera applicato con la colla. E' il debutto nel burlesque di Gypsy Rose Lee, raccontato da lei medesima nell'autobiografia (“Gypsy”, Adelphi 1999).

    Al teatro Missouri di Kansas City
    lo striscione prometteva 40 ragazze 40 (nel 1928, una bella promessa per tutti i maschi dei dintorni). Tessie era la star, ritratta sul manifesto a grandezza più che naturale, con addosso un triangolino e due toppe più piccole per reggiseno. A ornamento del pezzo di sopra, due vere nappine di seta nera mosse da un ventilatore. Svelavano il clou dello spettacolo e giustificavano il nome d'arte: “Tessie la giranappine”. Allude alla tecnica – in gran voga nel vecchio burlesque, ora rimessa in auge dal new-burlesque di Dita Von Teese e numerosa compagnia – che insegna a roteare i capezzoli agghindati. Fa da materia di studio anche nei corsi di burlesque per principianti organizzati a Roma dal Micca Club (e ovunque nel resto d'Italia) un po' per femminismo e un po' per speziare il sesso coniugale con uno spogliarello fatto ad arte. Le signore intenzionate a proporsi per il nuovo talent show di Sky, “Lady Burlesque” (in onda questa sera su Skyuno) sono avvertite. Tessie, da parte sua, non solo riusciva a far turbinare le nappine tenendo le spalle fermissime. Era bravissima a bloccarsi con una tetta rivolta in su e l'altra rivolta in giù.

    Prima che arrivino i distinguo delle fan e delle praticanti – il burlesque non è lo spogliarello, orrore, è la riappropriazione del corpo e della seduzione – conviene tornare alla storia di Gypsy Rose Lee, in tournée con la mamma Rose e la sorella June mentre negli Stati Uniti il cinema sonoro rubava spazio e spettatori al varietà. Le scritture erano sempre più misere, i giorni di lavoro riducevano le compagnie alla fame, i maialini ammaestrati non li voleva più vedere nessuno, gli impresari correvano ai ripari. Per far concorrenza ai film, organizzavano spettacoli con ragazze vestite di carta da giornale. Un pezzetto strappato serviva per titillare gli spettatori delle prime file, altri brandelli venivano appallottolati e lanciati al pubblico delle file più a buon mercato, l'ultimo strappo scopriva il sedere della soubrette, velato da una mutandina rosa a rete praticamente invisibile (“applausi e fragorosi boati dalla platea”, registra la diciassettenne cronista improvvisata che da dietro le quinte attende la chiamata per il suo numero).

    Gypsy Rose Lee non conservò a lungo la sua ingenuità. Ammesso che il termine sia applicabile a una fanciulla che dall'età di quattro anni, punzecchiata da una madre iena, fu costretta a sgambettare sul palcoscenico gareggiando con la sorella June, che a due già ballava sulle punte. A sei anni debuttò come rana in uno spettacolo natalizio organizzato da Sid Grauman, che non ebbe fortuna come cercatore d'oro nel Klondike ma diventò ricco e famoso costruendo il Chinese Theatre (quello con le mani degli attori impresse nel cemento), e fu tra i fondatori dell'Academy of Motion Picture che assegna gli Oscar. A trentatré anni, quando le venne l'idea di fare un figlio, scelse come padre “il più duro e spietato figlio di puttana” di sua conoscenza. Lo individuò nel regista Otto Preminger, ci andò a letto una volta, e poi gli ordinò di sparire (al figlio Erik, che chiedeva notizie sul genitore, rispose “non sono affari tuoi”, racconta la sua biografa Karen Abbott nel recente “American Rose: A Nation Laid Bare”, Random House). Il motto della genitrice madre era “Dio vi proteggerà, ma per sicurezza portatevi dietro un buon randello”. In aggiunta, una raccomandazione: “Fai agli altri prima che gli altri facciano a te”.
    “Dicevano lo stesso della radio, che avrebbe cancellato il varietà”, ribatte la terribile mamma a chi le ricorda che ormai gli spettacoli con nani e ballerine racimolano poco pubblico per colpa del cinema parlato. Ancor prima che Sid Grauman le rifiutasse un appuntamento, la mamma di Gypsy trovava orrendo il Chinese Theatre, terza tappa di un'escalation cominciata con il Million Dollar Theater e proseguita con l'Egyptian Theatre (quando nel 1949 a Grauman daranno l'Oscar, sarà per la meraviglia di queste sale cinematografiche): “E' una cosa contro natura, costruire un teatro simile”. Son queste le poco nobili origini del burlesque, dove un giovanotto sveglio riuscì a fare fortuna con un reggiseno metallico che stava su senza spalline. Dove i camerini erano una schifezza mai vista: salviette unte di trucco, scarpette di raso sfilacciate, mozziconi di sigarette, lavandini con i panni lasciati a mollo, sbaffi di rossetto sull'unico boccale per la birra (e sotto l'iniziale scritta con la matita per gli occhi), specchi rotti, lembi di tulle, vasetti di crema e cipria senza coperchio, pettini usati per mescolare il caffè, pendagli di strass che alle nuove arrivate paiono “un po' grandi, come collana”, quando provano ad appoggiarli sul décolleté (infatti la proprietaria, sempre Tessie la giranappine, caccia un urlo: “Ehi tu, con quel collo. L'ho pagato sei dollari, il mio coprisesso. Non è mica un giocattolo, posa un po'”). Il Crisco, grasso per usi di pasticceria, veniva usato per struccarsi e risparmiare sulla cold cream. La sorella di Gyspy, partita come bambina prodigio e finita a fare le maratone di ballo, cinquecento ore senza riposarsi (avete presente “Non si uccidono così anche i cavalli?” di Sydney Pollack, con Jane Fonda, Michael Sarrazin, e Susannah York, 1.500 dollari in palio nella California del 1931) manda cartoline scandalizzate: “Come avete potuto ridurvi al burlesque, è un disonore per la famiglia”. Due giovanotti che aiutano Gypsy e sua madre a montare una tenda (gli alberghi erano troppo cari) sdegnano i biglietti omaggio: “Siamo gente povera ma onesta, mai andremo a vedere le burlescherie”. In effetti ogni tanto la polizia faceva irruzione per chiudere i locali: “Tutta colpa di quello slip in pelo di scimmia”.

    Niente a che vedere con Gypsy al termine della carriera, in trionfale tournée d'addio. Rolls Royce grigia e marrone costruita su commissione, impreziosita dalle iniziali in oro sulla portiera. Ventisette colli di bagaglio – diciassette solo tra scarpiere, cappelliere e valigie Vuitton, più varie gabbiette con animali, macchina per scrivere, una tv portatile, il cofanetto del trucco, i bauli erano stati spediti a parte. Il figlio undicenne Erik sovrintende allo scaricamento mentre Gypsy si mette in posa scoprendo la giarrettiera e reggendo la valigetta più fotogenica. La casa di New York, sessantatreesima strada est, aveva ventisei stanze, sette bagni, il patio e la piscina, il coprisedile del water in visone, intonato al tappetino del bagno, e forse anche a quello che le ditte fornitrici di accessori chiamano girowater. A Erik è dedicata l'autobiografia, “così la smette di fare domande”. Era infatti un bimbo curiosissimo e precoce. A cinque anni smise di credere a Babbo Natale, dopo aver annusato la colla che teneva ferma la barba posticcia riconoscendola subito: “Gomma arabica, come quella che la mamma usa per incollarsi il reggipetto” (non gli spiaceva però, tutto considerato, che a portare i regali fosse un collega attore).

    Il cinema che diede la spintarella per far nascere il burlesque, sottraendo spettatori al varietà o al vaudeville – scenette e balletti, qualche doppiosenso ma niente di vietato ai minori – oggi lo celebra. A Cannes abbiamo visto “Tournée” di Mathieu Amalric (premio per la regia) soffrendo parecchio: si suppone che un film sul burlesque faccia vedere qualche bel numero, non solo le ballerine in camerino (un po' più ordinato di quello di Gypsy) che si appiccicano le nappine sulle tette e si infilano nei costumi paillettati. Il resto sono chiacchiere – felliniane perché una delle ballerine è burrosa e gigantesca – da sopportare pazientemente fino a che arrivano due gioielli: il numero con il pallone, e il numero con la corda. Il primo è una variazione sul vestito di palloncini, fatti scoppiare a uno a uno per lasciare la ragazza nuda: qui la ragazza gioca con un pallone gigante, e alla fine ci si infila dentro dalla testa ai piedi. Nel secondo, il vestito è fatto di corde, e la ragazza si spoglia liberandosene come Houdini.
    In gergo si chiamano gimmick, ogni vedette ha il suo (cowgirl, oriente, gigantesco bicchiere di champagne, ostrich-fan, ovvero il ventaglio gigantesco in piume di struzzo, oppure unicorno in scena, mise da Cleopatra e musica del “Padrino”, nel best of camp adocchiato su YouTube). Per i neo-fan distinguono il banale spogliarello dal burlesque. Per i semplici spettatori, la differenza sembra più avere a che fare con il professionismo, da quando lo strip tease è alla portata di qualunque casalinga (“uno non vuole vedere una ragazza nuda, vuol vedere nude le compagne di università”, spiega Mark Zuckerberg in “The Social Network”, e il fatto che ci abbia guadagnato sopra qualche miliardo di dollari garantisce la bontà dell'idea).

    Gypsy Rose Lee aveva puntato su un altro talento – “Non sono il più bel culo nudo, sono il più intelligente” – e per questo aveva tra i suoi fan H. L. Mencken, lo scrittore e polemista che sentenziò “nessuno è mai diventato povero per aver sottovalutato il gusto del pubblico”. Lei gli chiese un nome più acconcio per la professione, e lui coniò “ecdysiast” (da “ecdysis”, che vuol dire cambiar pelle come fanno i rettili). Negli anni Sessanta gli intellettuali andavano pazzi per la parigina Rita Renoir, che lavorava al Crazy Horse ed ebbe una parte in “Deserto rosso” di Michelangelo Antonioni. Oggi, Lola The Vamp vanta il suo Ph.D, sul suo sito parla di Art nouveau e di Belle Époque, cita i simbolisti, e per il feticismo chiama in correità il filosofo Giorgio Agamben.

      Proprio oggi arriverà nelle sale “Burlesque” di Steve Antin, con la scatenata Christina Aguilera e Cher che ormai pare la sua statua al museo delle cere di Madame Tussaud. Nonostante tutto, tenta il suo balletto, in qualità di tenutaria e vecchia star del locale dove una provinciale appena sbarcata dallo Iowa cerca la fortuna. In attesa della grande occasione, la giovane serve ai tavoli. La performance di Cher procura al film la sua cattiva fama e le sue cattive critiche. Cristina Aguilera fa faville, a dispetto di una trama semplicemente idiota (ma chi si aspetta una trama, da un film come questo?), e ricorda Liza Minnelli in certi numeri del “Cabaret” diretto da Bob Fosse.

    Sono gli ultimi titoli di una lunga serie. Uscito nel 1957, il memoir “Gypsy” diventò due anni dopo un musical di Broadway e nel 1962 un film con Rosalind Russell. Il primo è celebrato da Arbasino, incantato dai gimmick: spogliarsi suonando la tromba, aggiustarsi grandi ali da farfalla attorno alla vita, far partire scintille lunghe un metro dai capezzoli. Oltre che dalla cattiveria della terribile mamma, che alla figlia June (quella poi fuggita per ballare fino allo sfinimento) aveva imposto “la reverenzina, l'inchinetto, la spaccata con le mutandine bene in vista, la canzoncina dell'adorabile lattaia da scatola di fondants, la marcetta della mini-drum majorette con i marinaretti”, e si ritrovò con una figlia star dello spogliarello. Il film con Rosalind Russell si intitola “La donna che inventò lo striptease”, diretto da Mervyn Lerroy con musiche di Stephen Sondheim (lo stesso che firma “Sweeney Todd”). Da non confondere con “Quella notte che inventarono lo spogliarello” di William Friedkin – in originale “The Night they raided Minsky's”, laddove Minsky sta per Billy Minsky, l'impresario che con un telegramma invita mamma e figlia sul grande palcoscenico di New York. La mamma prima di partire da Filadelfia si frega un costume, per vendicarsi del vecchio datore di lavoro: copricapo di piume, abito con le frange e mocassini per lo spogliarello indiano.

    Per non farsi mancare niente, e coltivare la sua fama di ragazza nuda ma pensante, Gypsy Rose Lee scrisse anche un giallo, “The G-String Murders”, dove G-String sta per perizoma (lo segnalava Julian Symons nella sua storia della letteratura poliziesca, è stato ristampato nel 2005 dalla Feminist Press at the City University of New York). I maligni dicono che non l'abbia scritto da sola, che si sia fatta aiutare da Craig Rice, e lo stesso vale per il secondo titolo della serie, “Mother Finds a Body” (altri dicono che il mentore fosse George Davis, editor e marito della cantante Lotte Lenya). Dal libro William Wellman ricavò il film “Lady of burlesque”, con Barbara Stanwyck nella parte della ballerina di burlesque Dixie Daisy. Titolo italiano, tanto per distinguerci un'altra volta, “Le stelle hanno paura”. Per timore della censura, intanto era entrato in vigore il codice Hays, i colpi di fianchi erano erano un po' smorzati. Restava però la canzonetta a doppio senso: “Take it off the E-string, play it on the G-string”, che è come dire “Smetti di suonarla in mi, attacca a suonarla in sol” (non fosse che il G-String, oltre a una delle corde della chitarra, è sempre il perizoma).

    La vera arte americana, dissero a proposito del burlesque (in buona compagnia almeno con i musical, il western, il tip tap). Gli inglesi, che erano più pudichi, videro i loro primi spettacoli di donne nude grazie a Lady Henderson, ricca vedova che si annoiava e comprò il teatro Windmill (il film è “Lady Henderson presenta”, di Stephen Frears). “Non ero nuda, ero avvolta di luce blu”, diceva Gypsy ai censori. Come le ragazze di Lady Henderson, che però stavano immobili sotto la luce, in quadri allegorici e storici per un tocco di classe. La storia dello spogliarello francese – specialità della Nanà di Zola, che compariva in scena come Venere, mentre il pubblico impazziva per la peluria bionda delle sue ascelle – registra invece il numero di una bella ragazza che si spogliava, strato dopo strato, infastidita da una pulce.