Il Quirinale vuole Futuro e sobrietà
Gianfranco Fini rispetta – non senza fatica – gli autorevoli suggerimenti che gli arrivano dal Quirinale. Così, questo fine settimana, a Milano, l'ex leader di An sarà eletto presidente di Futuro e libertà, ma contestualmente alla sua acclamazione, al congresso fondativo della nuova formazione, si autosospenderà dall'incarico. Nei giorni scorsi aveva già fatto cancellare il proprio nome dal simbolo del nascituro partito. Ma perché? La risposta dei bene informati è: “Giorgio Napolitano vult”. Fini ha deciso per un mezzo passo indietro dall'impegno politico (da qualche tempo ha anche diradato le uscite pubbliche e le esternazioni).
Gianfranco Fini rispetta – non senza fatica – gli autorevoli suggerimenti che gli arrivano dal Quirinale. Così, questo fine settimana, a Milano, l'ex leader di An sarà eletto presidente di Futuro e libertà, ma contestualmente alla sua acclamazione, al congresso fondativo della nuova formazione, si autosospenderà dall'incarico. Nei giorni scorsi aveva già fatto cancellare il proprio nome dal simbolo del nascituro partito. Ma perché? La risposta dei bene informati è: “Giorgio Napolitano vult”. Fini ha deciso per un mezzo passo indietro dall'impegno politico (da qualche tempo ha anche diradato le uscite pubbliche e le esternazioni) per sollevare almeno un po' la presidenza della Repubblica dall'imbarazzo di avere la terza carica dello stato troppo esposta nella leadership formale di un partito a forte trazione antigovernativa.
Risale alla fine di gennaio – alla ripresa cioè degli attacchi di Silvio Berlusconi con rischieste di dimissioni scagliate contro il presidente della Camera – un invito autorevole, privatissimo ma sonoro, recapitato da Napolitano all'indirizzo di Fini. Ovvero: sarebbe meglio declinare la tua presenza pubblica più sul profilo istituzionale che su quello della politica di opposizione. Così, il 29 gennaio, Fini non ha raggiunto a Todi, come invece era previsto, l'alleato Pier Ferdinando Casini, assieme al quale avrebbe dovuto suonare la carica delle elezioni anticipate. “Un'influenza”, si era giustificato lo staff di Montecitorio. Non sembra.
Da allora il caloroso auspicio quirinalizio è stato diligentemente rispettato dal leader di Fli che si è imposto – non senza soffrirne un po' – di glissare sulle robuste accuse di tradimento (e non solo) piovutegli addosso dalle parti del Pdl, di Palazzo Chigi e dei giornali più sanguignamente berlusconiani. Niente polemiche dirette, nessuna risposta tagliente agli strali del premier; nonostante la tentazione di replicare contrattaccando ci sia stata, eccome.
Racconta uno degli uomini più vicini al leader: “Accontentare Napolitano ha un costo. Fini rispetta il proprio ruolo istituzionale e rispetta anche quello degli altri. Ma ha a che fare con Berlusconi, uno che degli inviti di Napolitano non sembra curarsi troppo. Insomma assecondare la moral suasion, quando questa è ignorata dal premier, può rivelarsi un boomerang”. E d'altra parte, in Fli lo ricordano bene, è già successo: con la tardiva – e fallita – spallata del 14 dicembre.
“Accontentare Napolitano può rivelarsi un boomerang”, dice uno degli uomini meno esposti, ma più informati, della cerchia finiana. D'altra parte al presidente della Camera è già capitato – il 14 dicembre scorso – di aver visto trionfare il Cavaliere, soltanto per aver rispettato gli auspici del Quirinale. Fu infatti proprio Napolitano a chiedere che il voto di sfiducia, con il quale Terzo polo e centrosinistra erano certi di poter mandare a casa il premier, slittasse al dopo Finanziaria. Fini, dominus del calendario di Montecitorio, accontentò, per rispetto e prassi consolidata, l'autorevole indicazione. Ma col tempo guadagnato – un lunghissimo mese – il mai davvero domo Berlusconi riuscì recuperare un pugno di voti (tra cui un paio di finiani) sufficienti a sfangarla. La sconfitta brucia ancora. Malgrado ciò – pur talvolta soffrendo – Fini non ha la minima intenzione di incrinare il proprio rapporto consolidato con la presidenza della Repubblica.
Così, al congresso fondativo che si apre oggi a Milano, il presidente della Camera accetterà l'incarico di presidente di Fli, ma lo congelerà ufficialmente. “Le dimissioni da Montecitorio non sono nemmeno in discussione”, è la linea. Eppure, da tempo, persino nel suo entourage c'è chi lo consiglia del contrario, non solo il professor Alessandro Campi (recentemente defilatosi un po' dal ruolo di intellettuale gramsciano), ma anche il fedelissimo Roberto Menia. La ragione è sempre la stessa: la presidenza della Camera è un limite alla libertà di tono. E a far rispettare quel limite, da qualche tempo, è intervenuto il Quirinale; un guardiano cui è difficile poter dire di no. Rimane tuttavia strategicamente più remunerativo il consiglio di Italo Bocchino e di Carmelo Briguglio, solitamente descritti come “i falchi” o “l'ala dura”: dallo scranno più alto di Montecitorio deriva una capacità di controllo e manovra che in questa fase incerta può fare la differenza. Per dimettersi – quando, e se, ci saranno le elezioni – c'è sempre tempo. E' anche per questo che Fini, pur tentato (data una scorsa agli ultimi sondaggi), a Milano non farà più di una timida carezza alla santa alleanza antiberlusconiana proposta da Pd, Idv e Nichi Vendola. Le elezioni sono lontane. Non è ancora il momento di scegliere. Tanto più se – lo sostengono molti osservatori – i sondaggi che danno vittorioso il fronte TTB (tutto tranne Berlusconi), nel dettaglio penalizzano proprio Fini e il suo alleato terzopolista, Pier Ferdinando Casini. Quanto conviene una sconfitta personale in una ipotetica vittoria collettiva?
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