L'indignazione al potere
L'azionismo? Ideologia dei colti, elitismo cetuale degli intellettuali nemici, in nome della propria tradizione e del proprio stato, del loro stesso paese. E' una lunga storia, che affonda le radici nell'“ideologia italiana” e conferma “l'intransigentismo giudicatorio” di cui l'intellettuale contemporaneo, a dispetto delle tragedie del Novecento, continua a volersi arrogare. Ernesto Galli della Loggia non ha aspettato le recenti polemiche sull'azionismo e i suoi tardivi emuli per occuparsi, da storico, del fenomeno. E ancora oggi riconosce il legame vivissimo tra l'azionismo e il ceto intellettuale.
L'azionismo? Ideologia dei colti, elitismo cetuale degli intellettuali nemici, in nome della propria tradizione e del proprio stato, del loro stesso paese. E' una lunga storia, che affonda le radici nell'“ideologia italiana” e conferma “l'intransigentismo giudicatorio” di cui l'intellettuale contemporaneo, a dispetto delle tragedie del Novecento, continua a volersi arrogare. Ernesto Galli della Loggia non ha aspettato le recenti polemiche sull'azionismo e i suoi tardivi emuli per occuparsi, da storico, del fenomeno. E ancora oggi riconosce il legame vivissimo tra l'azionismo e il ceto intellettuale: “Giudicare è una funzione di grande soddisfazione, perché è l'unica rimasta, e consente di ergersi a una posizione dominante”, spiega. E se uno insiste per sapere se la scomparsa dell'agorà non abbia in qualche modo enfatizzato la propensione dell'intellettuale a farsi arbitro del bene e del male, Galli della Loggia corregge subito: “Oggi c'è una caricatura dell'agorà, per questo impazza il moralismo: il talk show televisivo ti dà al massimo 31 secondi per emanare una sentenza di morte. Preclusa ogni discussione, c'è un domatore che organizza lo spettacolo, dà e toglie la parola a sua discrezione. Così si comminano le sentenze di morte, senza dispositivo”. Ma per capire come mai bisogna rileggere un vecchio saggio di Galli della Loggia, “La democrazia immaginaria. L'azionismo e l'ideologia italiana”, apparso nel 1993 sulla rivista Il Mulino.
Lo storico allora prendeva spunto da Norberto Bobbio, che l'anno prima, polemizzando con Gian Enrico Rusconi, aveva affermato: “L'annuncio della fine dell'azionismo mi pare prematuro”. Altro che fine prematura, commenta, siamo di fronte a un “trionfo postumo”. E cita MicroMega con “l'invocazione all'alternativa azionista” da parte di Paolo Flores d'Arcais, per spiegare come, scomparsi i grandi partiti della sinistra italiana, Pci e Psi, l'azionismo fosse diventato “uno dei pochi punti di riferimento positivi dell'intera vicenda ideologica e politica repubblicana” benché, nell'atmosfera trionfale, il ricordo di quel movimento si discostava non poco dalla sua verità storica. “L'azionismo, in quanto fenomeno storico concreto, è andato via via coprendosi di nebbia, trascolorando e trasfigurandosi, ed è diventato la sua storiografia (qualcuno malignamente potrebbe dire la sua agiografia), la sua versione riveduta ex post, a opera quasi sempre degli stessi azionisti o dei loro fedelissimi discepoli”, scriveva Galli della Loggia. Aveva in mente quella specie di socialismo ancorato a una salda ispirazione liberal-democratica, che l'azionismo in verità non era mai stato, e che invece veniva propinato da Giovanni De Luna, studioso campano-torinese che partendo negli anni Settanta, da posizioni operaiste e antiliberali si era accreditato come storico ufficiale del Partito d'azione, stemperando l'iniziale radicalismo nell'approdo alla Voce repubblicana.
Niente di più lontano dal vero. E questo valeva sia per il Partito d'azione, che nella sua breve vita, dal 1942 al 1947, cercò di essere non solo la sintesi tra giustizia e libertà, ma tante altre cose, senza riuscirci. Sia per il gruppo torinese dei Bobbio, dei Vittorio Foa, dei Galante Garrone, dei Valiani o dei Calamandrei, che ad esso sopravvisse e ne tenne alto il nome, rifiutando la politica dei partiti, “la politique politicienne”, e irradiandosi in altri terreni. “Questo azionismo è sostanzialmente estraneo alla liberal democrazia, e un parente alla lontana del socialismo liberale”, scriveva Galli della Loggia nel 1993. “E' un surrogato spurio della liberal democrazia”, che nasce da Piero Gobetti, l'intellettuale torinese considerato un campione del liberalismo, come accadde anche a Benedetto Croce, ma che in realtà ne fu, secondo Galli della Loggia, un formidabile fraintenditore. “Entrambi hanno depoliticizzato il liberalismo”, per dire come Gobetti e Croce avessero privato il liberalismo di qualsiasi concretezza storica, per farne “una filosofia della libertà, un principio etico, un vago ideale morale, buoni a coprire i regimi più diversi e magari, nella loro pratica, più illiberali”. E infatti, anche se nel suo saggio non la cita, avrà sicuramente avuto in mente quel famoso scritto sulla rivoluzione bolscevica, in cui il “liberale” Gobetti inneggiava al potere dei Soviet, in nome dell'emancipazione e dei diritti del singolo, poi puntualmente smentiti dalla storia del leninismo. In realtà, secondo Gobetti, per definire liberale un regime bastava che in quel regime ci fosse posto per la libertà come creatività, come autonomia della personalità morale. Ed è per questo, continua sempre Galli della Loggia, che Gobetti poté considerare Marx e Mazzini “i più grandi liberali del mondo moderno”, proprio come Croce pensava che il liberalismo avesse a che fare più con Hegel e Silvio Spaventa che con Locke e John Stuart Mill.
Gobetti insomma “concepì il liberalismo come libertarismo, come passione per un agonismo sociale sempre attivo, per un confronto tra ‘minoranze eroiche'”. Per questo, nell'esperienza concreta della democrazia italiana, non vide altro che una serie di stratagemmi volti a ingabbiare e distorcere le energie delle masse popolari, come “l'economicismo al potere, la politica trasformata in legislazione sociale, e dunque in mancia corruttrice”.
A questa confusa concezione del liberalismo, notava Galli della Loggia, corrisponde “il ruolo eticamente rigenerativo e politicamente demiurgico che l'ideologia italiana sin dal Risorgimento riconobbe alle minoranze intellettuali”. Dal 1870 in poi, dal sociologo Vilfredo Pareto all'ideologo Alfredo Oriani, dal poeta D'Annunzio alla rivista La Voce, la cultura italiana in effetti non fece che alimentare un'immagine negativa della vita politica con le sue classi dirigenti, i suoi partiti, le sue procedure parlamentari, sostenendo che l'unico modo per risolvere il problema storico italiano era una mobilitazione eccezionale delle energie morali del paese, che superasse i canali della rappresentanza democratica.
“Oggi come allora, destra e sinistra”, dice al Foglio Galli della Loggia, “non assegnano agli intellettuali altra funzione”. Nel primo Novecento, però, durante il biennio rosso, con l'occupazione delle fabbriche e lo squadrismo agrario fascista, inizia a profilarsi una polarizzazione dell'ideologia italiana che porterà da un lato alla miscela marxista-leninista, dall'altro all'egemonia fascista. E' in questo frangente che Gobetti cercò di costruire un polo alternativo alla soluzione del fascismo. E in questo modo “l'ideologia italiana antiliberale-democratica e di ascendenza mazziniana e orianesca venne messa in grado di sopravvivere al fascismo presentandosi all'appuntamento con l'Italia repubblicana”. Solo che per sopravvivere all'esito fascista, per resistere all'ambizione egemonica del fascismo, doveva trovare un ancoraggio a sinistra. La cultura non bastava: bisognava stabilire un forte rapporto di vicinanza e di solidarietà politica col Partito comunista.
Fu così che grazie a Piero Gobetti avvenne quel “mutamento conservativo” essenziale per gli intellettuali nella crisi determinata dal fascismo. Mentre Croce portò l'eredità dell'idealismo oltre il fascismo, Gobetti schierandosi in modo solidale rispetto al Pci, diede all'ideologia italiana “una veste nuova di foggia progressista”, facendone il nucleo di una posizione culturale destinata, in prospettiva, a esercitare l'egemonia sull'antifascismo, dopo il fascismo. L'azionismo è proprio questa posizione culturale: è il gobettismo dopo il '45, facilitato anche dalle radici comuni del Pci e dal pedagogismo populistico-autoritario che l'avvicina all'elitismo volontarista tipico dell'ideologia italiana. E' questo, per Galli della Loggia, il codice genetico dell'azionismo di ascendenza gobettiana, che sopravvive ancora oggi. “Lungi dall'incarnare una teoria della democrazia o una forma di liberalsocialismo, come superficialmente si continua a dire, l'azionismo è innanzitutto una posizione del ceto degli intellettuali nei confronti del fascismo e del comunismo. Esiste e vive e si giustifica solo in funzione di fascismo e comunismo”, insiste. Perciò, nei confronti della democrazia, l'azionismo avrà sempre una posizione “di risulta” che non costituirà mai una premessa, ma una conseguenza, “e si declinerà volta per volta con accezioni diverse del concetto stesso di democrazia, o con diverse accentuazioni, a seconda delle esigenze dettate dal rapporto coi termini che esso giudica decisivi per autodefinirsi”.
Sembra molto complicato, ma in realtà il saggio del 1993 di Galli della Loggia non fa che concettualizzare la situazione che abbiamo sotto gli occhi. “L'azionismo rappresenta la tendenza degli intellettuali intrisi di ‘ideologia italiana' a esorcizzare la contiguità col fascismo, l'ambiguo confondersi nelle proprie persone delle categorie di ‘destra' e di ‘sinistra', decretando il fascismo come l'apice di tutte le negatività storiche e stabilendo su questa base un rapporto privilegiato con l'esperienza comunista”. E' una scorciatoia politica, avverte Galli della Loggia con cui l'azionismo aggira e occulta i nodi dell'ideologia italiana e le sue complesse vicende, tant'è che l'ambiguità originaria permane nei confronti della democrazia liberale. Decretare il fascismo come l'apice del male storico, stabilire una rapporto privilegiato con l'esperienza comunista sono due condizioni che impediscono all'azionismo gobettiano di aderire alla democrazia liberale; da un lato infatti non consentono di vedere nessun nemico della democrazia se non a destra, mentre dall'altro spingono a vedere solo nella destra un nemico della democrazia.
Nasce da qui la forte incertezza nella definizione e nella pratica stessa della democrazia, ed è questo aspetto a spiegare la difficoltà da parte dell'azionismo a convincersi del carattere obbligatoriamente “centrista” della posizione liberaldemocratica. In altre parole, riconoscersi equidistante sia dal fascismo sia dal comunismo è impossibile, perché vorrebbe dire “mandare all'aria l'asimmetrica geometria fondativa stessa dell'azionismo, la sua opzione per un rapporto privilegiato con l'esperienza comunista, in nome di un fondamentalismo antifascista assunto come ideologicamente preliminare a tutto”. Si spiega così la ragione dell'antifascismo democratico che François Furet definiva “emiplegico”, e in virtù del quale l'azionismo si è sempre schierato in prima linea contro il totalitarismo nazifascista, andando però a braccetto col totalitarismo sovietico. Galli della Loggia parla, nel suo saggio, di un'intepretazione “asimmetrica” della democrazia. Spiega perché l'azionismo torinese “non sia mai riuscito a opporre alcuna limpida, inflessibile reistenza di fronte a fatti, figure e movimenti antidemocratici, quando questi avevano un connotato di sinistra”. La ragione è semplice ai suoi occhi: “L'originaria opzione volta a non perdere il contatto con l'esperienza comunista, quasi automaticamente tendeva a tradursi di fatto, nel calssico ‘pas d'ennemi à gauche'. Di fronte ai regimi del socialismo reale e ai loro fasti, così come di fronte all'estremismo italiano degli anni Settanta, la sua opposizione, insiste infatti Galli della Loggia, “si è espressa sempre tardi, in modi quanto mai circospetti, avvolta di tutte le cautele e i distinguo immaginabili” (e in nota cita il mensile di GL di Torino, che nell'ottobre 1967 scriveva: “Malgrado lo stalinismo e tanti gravi errori la rivoluzione d'Ottobre ha avuto ragione… L'opera di Lenin, pure, coi gravi difetti che hanno provocato la crisi dell'Urss, merita di essere guardata come un passo avanti nel cammino dell'umanità”).
Lo storico parla di ostilità radicale dell'azionismo nei confronti della socialdemocrazia e del riformismo di sinistra. E dall'incompatibilità concettuale dell'azionismo torinese con la fondazione liberaldemocratica inferisce l'incapacità di esprimere un'egemonia culturale nella vita del Dopoguerra, la paralisi nata dalla convinzione gobettiana e giellista che la modernità si sommasse per sempre nella grande fabbrica e nel proletariato. Da qui, l'assenza dei grandi classici del pensiero antitotalitario, Arendt, Aron, Berlin, Orwell, Tocqueville dal catalogo Einaudi, roccaforte dell'azionismo torinese. E soprattutto l'errore di prospettiva riguardo le sorti della democrazia liberale, e la propensione all'intransigenza e all'eticizzazione del discorso politico, che ancora sopravvivono, nella vita pubblica italiana. “Come si può essere antifascisti in un paese democratico? In modo intransigente, risponde l'azionista, facendo dell'intransigenza la cartina di tornasole per misurare l'antifascismo degli attori politici che ad esso pretendono richiamarsi. Alla fine, facendo dell'intransigentismo la sua cifra popolare, l'azionismo torinese è diventato il vero depositario del potere di legittimazione e di delegittimazione della vita pubblica”. E' questo aspetto che spiega il forte ruolo etico pedagogico, tendenzialmente fuori e anzi contro la politica di partito, considerati come un colpevole tradimento degli ideali. “Non meraviglia che venuto meno col crollo del comunismo l'unica centrale ideologica capace di assegnare agli intellettuali un ruolo specifico di alta significatività” concludeva Galli della Loggia vent'anni orsono, “la fortuna dell'azionismo torinese fra i ceti colti collocati a sinistra abbia preso a crescere a dismisura, facendo registrare un vero e proprio passaggio in massa dall'uno all'altro, con l'ovvio corteo di manipolazioni storiografiche e trasformismi del caso”. Il moralismo della posizione che l'azionismo si è costruito sulla scena pubblica del Dopoguerra recupera infine l'alienazione degli intellettuali dalla politica, come ambito gestito da addetti ai lavori. “E' un rifiuto che discende in linea retta dalla curvatura etico pedagogica con cui gli intellettuali italiani concepiscono la dimensione della politica e vivono il proprio ruolo. L'intransigentismo giudicatorio è insomma la premessa e lo sbocco che alimenta l'alienazione degli intellettuali e tende a trapassare nell'alienazione tout court nei confronti dell'intero paese”.
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