Chi l'ha detto che l'arte sovietica non c'entra niente con la bellezza?

Massimo Boffa

E' stata una scelta quanto mai felice inaugurare l'anno della cultura russa in Italia con un mostra dedicata ad Aleksandr Deineka (Roma, Palazzo delle Esposizioni, dal 19 febbraio al 1° maggio), l'artista che più di ogni altro ha incarnato il patos eroico dell'utopia comunista. L'iconografia rivoluzionaria è stata, infatti, l'invenzione più autentica del Novecento russo, e l'opera di Dejneka ne è parte fondamentale. E' la prima volta che una mostra di simili dimensioni viene organizzata fuori dai confini nazional.

    E' stata una scelta quanto mai felice inaugurare l'anno della cultura russa in Italia con un mostra dedicata ad Aleksandr Deineka (Roma, Palazzo delle Esposizioni, dal 19 febbraio al 1° maggio), l'artista che più di ogni altro ha incarnato il patos eroico dell'utopia comunista. L'iconografia rivoluzionaria è stata, infatti, l'invenzione più autentica del Novecento russo, e l'opera di Dejneka ne è parte fondamentale. E' la prima volta che una mostra di simili dimensioni viene organizzata fuori dai confini nazionali e si spera che ci liberi finalmente di tanti luoghi comuni sull'arte sovietica, rappresentata ancora come se, dopo la pirotecnica stagione delle avanguardie, dei Malevic, dei Tatlin, dei Rodchenko, si fosse aperto un gigantesco buco grigio, dove vi fosse spazio solo per un'arte di massa, impersonale, retorica, senza poetiche originali. In un'ideale galleria dei grandi miti del XX secolo, Deineka potrebbe figurare agli antipodi di un Edward Hopper, ma al suo stesso livello: interprete del mito individualistico l'uno, di quello collettivistico l'altro. L'entusiasmo per l'epopea dell'industrializzazione e per la tecnica moderna, l'ammirazione per le virtù marziali, il culto della salute del corpo e della mente – e, al di sopra di tutto, la fede nell'uomo nuovo impegnato a ricreare il mondo – questi sentimenti traspaiono potentemente nei quadri dell'artista russo e forniscono la formidabile immagine idealizzata di un'impresa storica terribile, ma che suscita ancora il rispetto dei suoi conterranei.

    Rompere con l'astrattismo dei suoi predecessori non fu, per Deineka, un'imposizione dall'alto, ma una scelta espressiva per inventare una nuova arte figurativa e dare forma ai temi del momento: un'intima urgenza espressiva che non dovette attendere le prescrizioni dogmatiche del “realismo socialista”. Del resto, nella sua visione immaginaria, il comunismo si percepì come umanesimo, cioè come una reincarnazione del classicismo. E' questo il senso più autentico dell'itinerario di Deineka, dagli anni Venti agli anni Trenta. Nei primi prevale lo stile eroico e monumentale, crepita la mitraglia e fonde l'acciaio. Nel secondo l'entusiasmo rivoluzionario lascia il posto a un più intenso lirismo: certi ritratti femminili, certi nudi di donna che escono dall'acqua, certe madri che tengono in braccio il loro bambino, certi meditabondi fanciulli al sole hanno una compostezza che è quasi classica e si propongono come modelli di una bellezza fuori dal tempo.

    Fu un figlio del regime? Certo, e per giunta un figlio prediletto, cui non mancarono tutti gli onori. Ma Deineka fu qualcosa di più di un semplice testimone dell'epoca. La sua opera è lì a dimostrare che la cultura del comunismo sovietico non è riducibile a una monotona dialettica tra conformisti e ribelli. E che, dunque, non a dispetto delle false mitologie rivoluzionarie, ma anche in omaggio a esse, il grande artista poté creare le forme iconiche che ancor oggi ci trasmettono l'emozione della bellezza.