Rovinato da escort e perbenisti. Il processo mediatico contro Oscar Wilde
Anche il sottoscritto ieri è andato a letto tardi. Spronato da una specie di tarlo si è riletto tutto il volume “Dossier Oscar Wilde” (Kaos 2010) in cui sono riportati i tre processi che, nel 1895, portarono alla sua condanna ai lavori forzati per l'accusa di sodomia. Il processo fu scatenato dall'avventatezza di Wilde stesso, che, spronato dalla rabbia del suo amante più celebre, Lord Alfred Douglas, portò in giudizio per diffamazione il padre del ragazzo, il Marchese di Queensberry, che lo aveva accusato con un biglietto sgrammaticato di “posare a somdomita” (sic).
Anche il sottoscritto ieri è andato a letto tardi. Spronato da una specie di tarlo si è riletto tutto il volume “Dossier Oscar Wilde” (Kaos 2010) in cui sono riportati i tre processi che, nel 1895, portarono alla sua condanna ai lavori forzati per l'accusa di sodomia. Il processo fu scatenato dall'avventatezza di Wilde stesso, che, spronato dalla rabbia del suo amante più celebre, Lord Alfred Douglas, portò in giudizio per diffamazione il padre del ragazzo, il Marchese di Queensberry, che lo aveva accusato con un biglietto sgrammaticato di “posare a somdomita” (sic). Il marchese fu dichiarato innocente e Wilde si vide puntare l'arma contro, fino alla condanna per lui e Alfred Taylor, accusato di gestire una casa di appuntamenti per omosessuali, di procacciare bei giovanotti a signori facoltosi, di “gross indecency” e di “associazione a delinquere”. Sono passati due anni da quando, proprio in questi giorni, Roberto Benigni lesse al Festival di Sanremo la dolente lettera di Wilde a Lord Alfred Douglas, prima di essere incarcerato, e oggi Wilde è portato sugli scudi, da tutti i più fieri e radicali sostenitori della libertà sessuale, come una sorta di tragica vittima su cui si è riversata l'ipocrita violenza di un mondo perbenista e bigotto. Intellettuali, artisti, giornalisti, docenti scuotono il capo disgustati alle parole del giudice vittoriano che condanna il grande scrittore con uno sprezzante “mi rivolgo a voi sapendo che sono parole al vento: in individui che arrivano a fare cose del genere deve essere morto alcun senso del pudore, e non è possibile sperare di esercitare alcun effetto su di loro”; sorridono ammirati alle risposte di Wilde, il quale, interrogato sull'immoralità o meno che attribuisse ad un certo romanzetto omosessuale clandestino, ribatteva un ironico “era peggio: era scritto male”; alzano gli occhi al cielo per chiedere vendetta all'analisi sospettosa di tanti passi del “Dorian Gray” che a Wilde è chiesto di giustificare moralmente.
Quello che forse tanti ammiratori di Wilde dimenticano è come tutto il processo a suo carico sia stato costruito offrendo al pubblico ludibrio le dichiarazioni dei vari giovanotti che si offrivano a pagamento per accompagnare Wilde e Lord Alfred a cena, a teatro, eppoi nelle loro camere d'albergo: persone come il diciassettenne Charles Parker, oppure Horace Avory, che raccontarono le loro serate a pagamento con Wilde, e come questi li ricompensasse con “sterline, portasigarette, fazzoletti, e un orologio d'argento con catena”. Le accuse furono rimarcate anche con la corrispondenza privata di Wilde e Lord Alfred, le richieste e i ricatti di alcuni dei marchettari da loro frequentati, dalle testimonianze di cameriere e massaggiatori impiegati negli alberghi che avevano trovato Wilde, Taylor, Douglas in compagnia di giovani “tra i sedici e i diciott'anni”, e le testimonianze di numerose e dispendiose cene nelle salette riservate dei ristoranti. Molti ignorano che Wilde stesso non impugnò mai i fatti che gli venivano contestati come leciti, e che, pressato sulla natura delle sue scelte e delle sue relazioni, si appellò a Platone, Michelangelo, Shakespeare per meglio spiegare l'ammirazione suscitate in un artista dalla bellezza e la giovinezza. Tuttavia fu condannato. Wilde, che aveva trentanove anni e aveva ottenuto tutto quello che poteva desiderare dalla vita, fascino, ricchezza, uno straordinario successo di pubblico e discepoli adoranti, da Apollo si trovò trasformato in un Dioniso re dell'eccesso, eppoi ridotto a un satiro Marsia scuoiato “dalle pantere” (gli escort) e lasciato lì, incapace di scrivere, costretto a vagare mendicando favori a vecchi amici e ammiratori, sprecando i pochi mezzi disponibili nel sesso e nell'alcool, senza più vedere né la moglie né i figli. Morì abbandonato pressoché da tutti, salvo gli amici più devoti e la chiesa cattolica.
All'epoca non c'erano le intercettazioni telefoniche, ma è assai difficile immaginare che l'autore di “Dorian Gray”, costretto a veder esposta la sua vita privata e le sue relazioni al pubblico dileggio, alla rovina e all'infamia si sarebbe trovato a proprio agio con gli eredi spirituali del Marchese di Queensberry – già tanto moderno da essere un ateo che si faceva beffe della religione e tanto bigotto da essere un fariseo con i sassi in mano – riuniti al Palasharp qualche giorno fa.
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