Ottant'anni da Ruini

Don Camillo e il cardinal vicario. Una storia italiana

Paolo Rodari

Don Emilio Landini, 76 anni, come un fratello per il cardinale Camillo Ruini, siede nella redazione del settimanale diocesano la Libertà al primo piano di un immenso edificio anni Quaranta, in parte disabitato, il seminario della diocesi di Reggio Emilia. Un tempo per gli scaloni salivano e scendevano frotte di seminaristi, più di cinquecento negli anni Cinquanta. Oggi sono solo venti. Don Landini ha appena chiuso l'ultimo numero della Libertà dedicato agli ottant'anni di Ruini (numero 7, anno 59) che titola: “Ruini, pastore e teologo appassionato di Dio”.

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    Don Emilio Landini, 76 anni, come un fratello per il cardinale Camillo Ruini, siede nella redazione del settimanale diocesano la Libertà al primo piano di un immenso edificio anni Quaranta, in parte disabitato, il seminario della diocesi di Reggio Emilia. Un tempo per gli scaloni salivano e scendevano frotte di seminaristi, più di cinquecento negli anni Cinquanta. Oggi sono solo venti. Don Landini ha appena chiuso l'ultimo numero della Libertà dedicato agli ottant'anni di Ruini (numero 7, anno 59) che titola: “Ruini, pastore e teologo appassionato di Dio”. Davanti a un vecchio Macintosh don Ladini scorre le foto di Ruini giovane prete e parla di lui con toni d'altri tempi: “Gentilissimo nel tratto quanto determinato nel prendere decisioni anche impopolari, Ruini sa sorridere di se stesso, e fare ironie accompagnate da una sonora risata”.

    Agostino Menozzi è insegnante di lettere e oggi direttore dell'ufficio comunicazioni sociali della diocesi. Quando Ruini nel 1957 torna a Reggio dopo gli studi di filosofia e teologia a Roma alla Gregoriana, è uno dei primi a mettersi sui suoi passi. Con lui altri ragazzi della diocesi, tra questi i fratelli Prodi, Romano in testa. Dice Menozzi: “Tutti gli anni Ruini da Natale all'ultimo dell'anno ritorna con noi. Andiamo in vacanza sulle Dolomiti. Gli piace tantissimo camminare sulla neve. Soltanto in salita però. La discesa non è il suo forte. Qui ogni anno riscopriamo il suo vero tratto, diverso da quello che emerge spesso dai giornali da quando si trova a Roma”. Tra le leggende, una è girata per qualche tempo nella capitale. Si diceva che Ruini avesse un hobby: collezionare soldatini e carri armati, un piccolo esercito personale da muovere al riparo da sguardi indiscreti. Menozzi ricorda in proposito le parole di Ruini che disse: “Non è vero. Mio padre me ne regalò quando avevo sei anni, ci giocai un po' e poi li misi via, preferivo far navigare barchette nei fossi”. Racconta Menozzi: “Ama stare con la gente. E' riservato ma attento a tutti. Ama lo sport. Gli piace il calcio. Tifa Bologna. Da giovane andava spesso la domenica al Dall'Ara in tribuna con suo papà. E non assisteva alle partite con distacco. Lo ricordo rosso in viso esultare per un gol. A Reggio era assistente di una società di pallacanestro, l'Unione Sportiva la Torre. Non perdeva una partita. Sempre sulle gradinate vicino alla squadra”.

    Anna Giovanardi è anche lei cresciuta attorno a Ruini. Fu lei ad andare da “don Camillo” – tutti a Reggio lo chiamano così – a dirgli che voleva aprire dei corsi di teologia in diocesi. Ruini la prese sul serio. In pochissimo tempo mise su una scuola. Era una sua caratteristica quella di rendere subito operativi i progetti che aveva in mente. Disse un giorno l'allora vescovo di Reggio Gilberto Baroni: “Non capisco. Prima che arrivasse Ruini chiedevo ai miei assistenti di fare delle cose e nessuno faceva mai nulla. Ora non faccio in tempo a chiedere una cosa che Ruini l'ha già fatta”. Racconta Giovanardi: “Un giorno dovetti fare l'esame di dogmatica con Ruini. Gli dissi: ‘Ho preparato uno scritto. Lo faccio sempre prima degli esami'. E lui: ‘Non mi interessa. Veniamo alle domande'. Era fatto così: prendeva tutto sul serio. Ma era anche spiritoso. Una volta dovette sostenere l'esame di dogmatica un seminarista australiano che era diventato un po' la mascotte della diocesi. Si chiamava Tom Finningan. Si sedette e Ruini gli disse: ‘Bene. Parliamo di Dio. Chi è Dio?'. Finningan trovò la risposta giusta: ‘Dio è tutto', disse. E Ruini: ‘Ottimo. Si accomodi pure'”.
    Quando Ruini, giovane prete, inizia il proprio ministero a Reggio trova una chiesa locale già scossa da tensioni che poi emergeranno nel Concilio e soprattutto nel post Concilio. Da una parte la chiesa del dialogo a tutti i costi col mondo moderno. Dall'altra la chiesa della “presenza”, la chiesa che rivendica la propria identità cattolica prima d'ogni compromissione col mondo. Già nel 1957 Ruini fa vedere chi è. Aderisce con forza alla chiesa della “presenza” divenendone da subito il leader in diocesi. Tanto che secondo molti per conoscere il vero Ruini non occorre andare al 1984, al convegno della chiesa italiana a Loreto dove Ruini colpisce Karol Wojtyla con un discorso tutto incentrato attorno alla necessità che i cattolici escano dalle sagrestie e aggrediscano la secolarizzazione facendosi presenza. Il vero Ruini c'è già nei primi anni di sacerdozio, in una città, Reggio Emilia, che non molto tempo prima aveva dato i natali a un certo Giuseppe Dossetti, il capostipite del cattolicesimo, “adulto” come lo definì Romano Prodi nel marzo del 2005.

    Zeno Davoli, il “professore” come lo chiamano a Reggio (ha insegnato per anni italiano e latino al liceo), conosce Ruini a Reggio, giovane prete. Dice: “Ruini, modenese per lo stato civile, reggiano per la collocazione ecclesiastica, si inserì nella vita diocesana dopo essersi laureato in teologia alla Gregoriana. Subito fu coinvolto a vari titoli nella direzione della vita culturale della chiesa locale: assistente dei laureati cattolici, e poi di tutta l'Azione cattolica, presidente del Centro Giovanni, il centro culturale diocesano, presidente della Consulta per la pastorale scolastica, istituita in vista del sessantotto. Aveva una personalità molto spiccata e delle idee e posizioni teologiche ben chiare, che potevano trovare oppositori, ma suscitavano anche forti consensi. Aveva il fascino dell'intelligenza e della cultura, ma anche una grande semplicità di rapporti, cordialità e disponibilità all'amicizia. In più aveva il fascino sottile e inavvertito di un'educazione di antica tradizione. Veniva infatti da una famiglia di medici illustri e un suo nonno, durante un'epidemia di colera, si era chiuso nel lazzaretto di Scandiano coi suoi malati ed era morto con loro. Era dunque logico che suo padre sognasse per lui un grande avvenire nel suo stesso campo, ma egli aveva preferito seguire la vocazione religiosa. Ricordo nei primi tempi il suo lavoro per aprire la diocesi alle indicazioni del Concilio, le sue tante conferenze e iniziative in proposito, il gruppo da lui istituito per la diffusione della lettura della Bibbia. Poi realizzò la “Cooperativa Leonardo”, cioè un centro culturale che non fosse formalmente legato alla chiesa e che permettesse quindi un dibattito più aperto e immediato sui problemi contemporanei. Tra le tante personalità invitate vi fu anche Joseph Ratzinger. Essendo Ruini un forte teologo, il vescovo Baroni lo usava per la difesa dell'ortodossia: quando in diocesi si teneva una conferenza che puzzava di eresia (ad esempio sulla teologia della liberazione o sull'etica o su uno dei tanti temi dibattuti troppo disinvoltamente nel dopo Concilio) poco dopo il vescovo gli commissionava un incontro che chiarisse bene le cose. In particolare affidò a lui la direzione del sinodo diocesano quando si accorse che stava prendendo un indirizzo perlomeno strano”.

    Dunque un Ruini capace di attirare attorno a sé consenso. Un prete di spirito e fedele all'ortodossia. Da subito veste i panni del watchdog della fede, quegli stessi panni che Ratzinger ha indossato dal 1981 fino al 2005 in curia romana. Dice Davoli: “Forse è per questo che i due sono tanto amici”. I primi anni a Reggio furono il seme di quanto poi successivamente a Roma fece crescere: “A quel tempo vi erano forti tensioni all'interno del mondo cattolico per la contrapposizione tra coloro che ritenevano prioritario il dialogo col mondo contemporaneo e coloro che puntavano alla presenza della chiesa nello stesso mondo contemporaneo. A Reggio, sia per antica tendenza culturale, sia per la presenza di forti personalità in tal senso, sia per il fatto concreto che il Partito comunista aveva da solo più del cinquanta per cento dei voti e gestiva il potere di conseguenza, era forte la tendenza al dialogo, che però, vista la situazione, non era un dialogo generico, ma uno sforzo di accordo col Pci. E, per i meno autonomi, un appiattimento sulla cultura marxista. Da questo Ruini non fu mai tentato; invece lottò sempre per affermare l'originalità della cultura cattolica, la necessità del ritorno a una fede forte, cosciente delle proprie caratteristiche, l'importanza dell'apporto dei cristiani, anche attraverso le loro strutture, alla vita e alla crescita della società civile. La forza di Ruini stava non solo nel fatto che aveva una forte cultura, delle idee molto chiare e sapeva individuare in ogni momento le iniziative più opportune, ma soprattutto nel fatto che poi lavorava concretamente per realizzarle e sapeva portarle a termine. Di lui era famosa una cartella nera che portava sempre con sé: era piena di fogli di appunti, di documenti, di testi, e soprattutto di un'infinità di numeri di telefono: erano quelli delle persone giuste da coinvolgere al momento giusto”. Dice in proposito Menozzi: “Ricordo bene la sua cartella nera. E ricordo soprattutto le pagine di appunti che vi portava dentro. Aveva una grafia pessima. In pochissimi riuscivano a decifrarla. E poi aveva una sorta di ‘mania' che non ho mai decrittato: quando arrivava in fondo al foglio, invece che girare pagina, cominciava a scrivere di lato fino a circumnavigare tutto il foglio. Poi, quando lo spazio finiva, scriveva tra una riga e l'altra inserendo nuove righe alle righe già esistenti. Alla fine i fogli erano un guazzabuglio che solo lui, forse, capiva”.

    Occorre riflettere su cosa era Reggio in quegli anni. Più della metà della popolazione votava Pci. Qui, negli anni immediatamente successivi all'arrivo di Ruini, nacquero le Brigate rosse. Qui la presenza cattolica era di retrovia, oscurata nelle università e nei licei. Ruini capì che una breccia poteva aprirsi solo proponendo una fede forte, di attacco. Ci pensa su parecchi anni. E poi si butta trascinando attorno a sé consenso e popolo. Racconta Davoli: “La sua iniziativa più nota fu l'istituzione degli ‘Studenti democratici', un gruppo studentesco finalizzato alla partecipazione alle iniziative di democrazia scolastica. Eravamo, se ben ricordo, nel 1973-'74, nell'anno dei Decreti delegati che istituirono i Consigli d'istituto, e la vita scolastica era monopolizzata dal Collettivo studentesco, che, sotto l'egida della sinistra, egemonizzava di fatto ogni iniziativa. In vista delle elezioni scolastiche quindi appariva evidente che gli studenti avrebbero presentato un'unica lista. Anche il futuro onorevole Pierluigi Castagnetti, che guidava allora i giovani della Democrazia cristiana, riteneva impensabile fare una lista alternativa, e in effetti il suo gruppo si presentò unito alla sinistra. Ruini, invece, partendo da alcuni seminaristi che frequentavano gli istituti superiori statali, coinvolse un numero sempre maggiore di studenti educandoli con discorsi sistematici sulla democrazia e la legalità, dando loro il senso della partecipazione politica e l'impegno per una politica pulita. Sebbene egli fosse favorevole all'unità politica dei cattolici, non fondò un gruppo di giovani democristiani, ma un gruppo di giovani che avessero il senso della partecipazione democratica e mantenessero la priorità della fede sulla politica. Per questo essi sentirono il loro rendersi autonomi dal Collettivo come un fatto essenzialmente democratico e vollero essi stessi chiamarsi ‘Studenti democratici'. Questo gruppo così improvvisato vinse immediatamente le elezioni e la cosa portò all'inaspettato tracollo della Fgc a Reggio”. Dice Menozzi: “In molti gli andavano dietro affascinati anche dalla vastità della sua cultura e delle sue conoscenze. Leggeva tantissimo e faceva leggere. Era appassionato di saggistica e soprattutto divorava i libri di teologia in lingua tedesca. Leggeva Von Balthasar prima che dei suoi scritti arrivassero le traduzioni italiane. Leggeva Karl Rahner, Karl Barth, e poi il gesuita canadese Bernard Lonergan”.

    La vittoria alle elezioni è un qualcosa di inaspettato. Ruini sconfigge ai punti la sinistra e si rende presente, visibile, riconoscibile. Il vescovo Baroni capisce di avere tra le mani un trascinatore, un leader nato. E punta tutto su di lui. Dice Davoli che “Ruini era amatissimo da Baroni. Questi lo teneva accanto a sé come suo principale collaboratore e discuteva con lui tutti i problemi della diocesi, tranne quelli economici, forse per non coinvolgerlo in situazioni moralmente faticose. Per non perderlo, Baroni creò anche una specie di cortina fumogena tra lui e Roma, tanto che Ruini è diventato vescovo alcuni anni dopo di quando avrebbe potuto. Alla fine, quando un ‘occhiuto' romano lo scoprì – Davoli è fedele alla parola data: ha giurato che non avrebbe mai rivelato il nome dell'‘occhiuto' e così fa, ndr – e Baroni dovette adattarsi al suo nuovo titolo, volle però che gli fosse lasciato come vescovo ausiliare. Ricordo la cerimonia di consacrazione; Baroni era riuscito a evitare che partecipassero anche il cardinale di Bologna, presidente della Commissione episcopale regionale, o altri prelati romani: così riuscì a essere lui il vescovo consacrante e per tutta la cerimonia fu in preda a una commozione veramente paterna. Dopo di che la permanenza a Reggio di Ruini non fu lunga. Un giorno, circa un anno prima del convegno di Loreto, mi espresse le sue preoccupazioni sulla chiesa italiana: se non ci mette personalmente le mani il Papa, avremo anni difficili! Giovanni Paolo II le mani ce le mise: chiese una bozza di testo per il suo discorso a Loreto ad alcuni collaboratori e scelse per la maggior parte quella di Ruini. Le conseguenze sono note”.

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