Il culto di Jobs

Steve Jobs, ventenne spiantato, dopo un'adolescenza turbolenta, fondò la stella-madre Apple. Simbolo esoterico, apparso nella testa di Jobs che da ragazzo rimase colpito dell'etichetta dei dischi dei Beatles. E il morso? Beh, c'è la solita Eva, quella della curiosità e del cambiamento, contro lo status quo

Stefano Pistolini

Io non credo che chi viva ogni giorno immerso nel Mondo Mac sia membro di una setta. Parlerei di appartenenza a una natura culturale. Però è tangibile lo sgomento provocato in questo entourage dall’allarme sulle condizioni di salute del fondatore di Apple

    È conosciuto come “Mondo Mac”. Come ogni mondo che si rispetti, c’è chi ci abita. E non se ne va più. Si conforma al suo stile, partecipa al suo progresso. Nel Mondo Mac è diffusa tra gli abitanti la sensazione di vivere nel migliore dei mondi virtuali possibili. E poiché oggi il mondo virtuale è l’altra metà della mela del nostro mondo reale e ne rappresenta il complemento, chi vive nel Mondo Mac si ritiene appagato, perché, per quanto concerne questa metà del suo mondo, non poteva andargli meglio. Non gli resta che progredire nella digitalizzazione dello spirito, acquistare serenamente i nuovi prodotti, senza badare ai costi (altre le cose su cui risparmiare) e restare nel flusso di questa felicità, sapendo che chi non appartiene al Mondo Mac lo fa perché non è nella sua natura. Il Mondo Mac funziona attraverso la condivisione di macchine del pensiero, che hanno forme e funzioni sempre più diverse, si chiamano computer, telefoni, tablet, ma s’evolvono così rapidamente da sfuggire alla nostra capacità di battezzarle e accrescono in modo così fulmineo il loro potenziale da tendere chiaramente verso l’infinito. Prestissimo sapranno fare “tutto” e si riuniranno in un’unica grande macchina assoluta, che avrà la ventura d’essere piccola, per non intimidirci.

     

    Al principio di questa cosmogonia c’è un padre legittimo, dal momento che ha creato ciò godendo fin dall’inizio d’una visione, che forse era originariamente una nebulosa intuizione, ma conteneva, in sé nativo, il mandato originale: costruire il nuovo compagno indispensabile a garantire l’eternità dell’uomo, come biblicamente aveva a suo tempo provveduto Eva, liberando Adamo dalla sua natura. Serviva la macchina capace di estrarre dalla mente umana il suo potenziale, come dai lombi di Eva uscì il figlio. Il computer non poteva essere mero progetto commerciale. Doveva essere una fede. Un destino, non un bisogno. Aspirazione non strumento. Partendo da questa cognizione, Steve Jobs, ventenne spiantato, dopo un’adolescenza turbolenta, fondò la stella-madre del Mondo Mac: la Apple, la Mela. Simbolo esoterico, apparso nella testa di Jobs che da ragazzo rimase colpito dell’etichetta dei dischi dei Beatles che, quando ebbero una società, la chiamarono Apple (transfert di grandeur). E poi Steve nel ’75 lavora in una piantagione di mele ed è vegetariano. E il morso? Beh, c’è la solita Eva, quella della curiosità e del cambiamento, contro lo status quo. E non è una mela che cade in testa a Newton? Il logo fu disegnato nel ’77 da Rob Janoff che acquistò delle mele, iniziò a osservarle e ne estrasse una monocromatica con un morso. Jobs richiese più colore. Il grafico aggiunse le bande colorate. La pressione della combinazione ALT+MAIUSC+8 visualizza la mela e il suo morso. E’ il cromosoma aggiuntivo dell’alfabeto Mac.

    Io non credo che chi viva ogni giorno immerso nel Mondo Mac sia membro di una setta. Parlerei di appartenenza a una natura culturale. Però è tangibile lo sgomento provocato in questo entourage dall’allarme sulle condizioni di salute di Jobs. La constatazione che l’assenza è parte del mondo quanto la nostra presenza. I suoi allievi sapranno interpretare il verbo della sua visione e trasformarla in prodotti. Ma la visione resterà confinata in se stessa. Mentre, c’è da scommetterci, ne contiene almeno un’altra che è la sua prosecuzione e che dobbiamo sperare che Jobs riveli prima d’accommiatarsi. Per ora possiamo restare solo alle parole del suo raro pronunciamento in un momento e in un luogo simbolici. 2005: Università di Stanford, la stessa che Jobs frequenta da clandestino, perché non ha né il profitto né i quattrini per iscriversi. Nel giorno delle lauree, un Jobs al culmine della parabola, promulga le tavole dell’ispirazione, messaggio di contemporanea universalità. “Io non mi sono mai laureato”, confessa. Ha però tre insegnamenti da impartire –  semplici. Il primo: “Unire i puntini”: “Dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici e la domenica camminavo miglia per un pasto al tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada in quel periodo si sono poi rivelate inestimabili. Non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete avere fiducia che, un domani, i puntini che ora vi paiono senza senso si uniscano in futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, il vostro destino… questo approccio ha fatto la differenza nella mia vita”.

    Il secondo comandamento parla di amore e perdita: “Sono fortunato – ho trovato in fretta cosa mi piacesse fare nella vita. Fondai la Apple quando avevo vent’anni. In dieci anni Apple è cresciuta fino a quattromila dipendenti. Ma avevo appena rilasciato il Macintosh, quando venni licenziato. Come può una persona essere licenziata da una società che ha fondato? Beh, assumemmo una persona per dirigere la compagnia con me. In seguito le nostre visioni cominciarono a divergere e ci scontrammo. Il cda si schierò con lui. A trent’anni ero a spasso. Devastante. Ero stato rifiutato, ma decisi di ricominciare. Fondai una società chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar, e m’innamorai di una splendida ragazza che sarebbe diventata mia moglie. Apple comprò NeXT e ritornai nel cuore del rinascimento di Apple. E io e Laurene abbiamo una splendida famiglia. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia. L’unica cosa che mi ha aiutato è stato l’amore per ciò che facevo: trovate le vostre passioni”.

    Il terzo messaggio di Jobs parla di morte. “Quando avevo diciassette anni, ho letto una citazione: ‘Se vivi ogni giorno come fosse l’ultimo, uno di questi c’avrai azzeccato’. Per i successivi trentatré anni, mi sono guardato allo specchio e mi sono chiesto: ‘Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?’. Ogni volta che la risposta era ‘No’, sapevo di dover cambiare qualcosa. Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile per fare le scelte importanti. Quasi tutto scivola via di fronte alla morte, lasciando ciò che è davvero importante. Un anno fa mi è stato diagnosticato un tumore. Il dottore mi consigliò di tornare a casa a sistemare i miei affari, che per i medici è il modo di dirti di prepararti a morire. Nessuno vuole morire. Ma la morte è la migliore invenzione della vita. E’ il suo agente di cambio: fa piazza pulita del vecchio per aprire al nuovo. Il tempo è limitato: non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Siate affamati. Siate folli”. Così parlò l’iniziatore.