Lampedusa, attracco finale

Marina Valensise

Sono tanti, giovani, belli e sorridenti i tunisini sbarcati a Lampedusa. Girano per le strade dell'isola in gruppetti. Si fermano nei bar, si siedono ai tavolini, ordinano un caffè, un cappuccino. Birra e vino, no, da quando l'ordinanza del sindaco Bernardino De Rubeis ha vietato la vendita di alcol. I più timidi chiedono solo un bicchier d'acqua. Fumano, chiacchierano, si guardano intorno. Il primo che incontro è seduto sul trespolo di una crêperie accanto alla parrocchia. Si chiama Ramsi, deve avere una ventina d'anni. Ha in mano un mezzo Buondì e ai piedi due scarpe diverse, una nera di gomma, l'altra bianca, calzate come pantofole.

    Sono tanti, giovani, belli e sorridenti i tunisini sbarcati a Lampedusa. Girano per le strade dell'isola in gruppetti. Si fermano nei bar, si siedono ai tavolini, ordinano un caffè, un cappuccino. Birra e vino, no, da quando l'ordinanza del sindaco Bernardino De Rubeis ha vietato la vendita di alcol. I più timidi chiedono solo un bicchier d'acqua. Fumano, chiacchierano, si guardano intorno. Il primo che incontro è seduto sul trespolo di una crêperie accanto alla parrocchia. Si chiama Ramsi, deve avere una ventina d'anni. Ha in mano un mezzo Buondì e ai piedi due scarpe diverse, una nera di gomma, l'altra bianca, calzate come pantofole. E' qui da tre giorni, dice di venire da Sfax. Parla l'italiano stentato del bisogno e della povertà. “Da tre giorni niente mangiare, dormire a terra. A Tunisia sono alla guerra. Non c'è lavoro. Là soldati di Ben Ali ha sparato. Io non voglio morire a Tunisia. Non voglio morire di fame. Io capisco che sono la Italia paese di libertà e democratica, ma non c'è libertà e democratica. Perché fate così? Perché non aiutare noi?”. Ramsi vorrebbe parlare e parlare, anche per i suoi amici che non sanno l'italiano.

    Il parroco don Stefano Nastasi
    sta per farsi intervistare da una troupe del Tg2, ma nel suo ufficio – due pc sul tavolo, alle spalle un computer su cui armeggia un africano, accanto l'organista-sacrestano – trova il tempo per un ripasso. Ha quarant'anni, viene da Montevago nella Valle del Belice, è qui da tre anni. Dice che è la prima volta che a Lampedusa si vede “uno sbarco con questo flusso, nei numeri e nei ritmi”. I numeri sono imponenti. Il questore di Agrigento, Ignazio Fonzo, parla di più di quattromila arrivi nell'ultima settimana, di cui duemila sono già stati trasferiti con navi di linea e ponti aerei a Porto Empedocle, verso il centro di Pozzallo in provincia di Siracusa, o di Rosolini, in provincia di Ragusa, ma anche a Bari, Barletta, Crotone. “Si tratta di una realtà completamente diversa: sono gruppi diversi con bisogni diversi”, dice don Stefano che ha fronteggiato l'emergenza dei primi giorni offrendo i locali della parrocchia per la notte, mentre il comune apriva l'Area marina. “Abbiamo tamponato”, spiega il parroco. “Il primo soccorso l'ha dato il personale del centro di accoglienza, che era in cassa integrazione. La prima notte i volontari erano meno di dieci, ora li hanno richiamati tutti e sono ottanta. Nei giorni scorsi, ne abbiamo ospitati circa 400, che poi sono stati i primi a essere trasferiti in terraferma”. Il Centro di prima accoglienza nel 2009 subì l'incendio di uno dei padiglioni, a opera dei migranti che non potevano più restare. Poi entrò in disarmo. Ufficialmente non serviva più, ed è rimasto chiuso fino a domenica. La nuova legge sui respingimenti e gli accordi bilaterali, infatti, avevano se non esaurito di molto ridotto il flusso migratorio dal nord Africa, che nel biennio precedente aveva toccato il record di 44 mila sbarchi. “Se arrivava qualcuno, ormai era in numero esiguo e venivano subito trasferiti altrove”, conferma don Stefano. Qui a Lampedusa, in effetti, c'era solo un Cpsa, e cioè un Centro di primo soccorso e di accoglienza, perché l'isola, come ha spiegato nel suo libro “Sale nero” l'esperta Valentina Loiero (Donzelli editore), si è sempre battuta contro l'apertura di un Cie, un Centro di identificazione e di espulsione, non volendo ospitare i clandestini per tutto il tempo, che può durare mesi o anni, necessario alla loro identificazione.

    Adesso il clima a Lampedusa è ben diverso
    , non solo perché è cambiata la legge, ma perché è cambiata anche l'emigrazione. L'insofferenza del passato, fino all'isteria del rifiuto di sepoltura ai cadaveri, che aveva macchiato la reputazione dell'isola, è solo un ricordo, un brutto ricordo, che nessuno ammette più. “Oggi non arrivano più disperati, mossi da una questione di vita o di morte” dice don Stefano, pensando alle migliaia di etiopi, nigeriani, sudanesi imbarcati dalle coste del Nordafrica da “passeurs” senza scrupoli. “Arriva gente con una maggiore sicurezza nel campo del lavoro, con dietro soldi abbondanti. Alcuni si professano filo-governativi di Ben Ali, e dunque a rischio. Altri vengono dai paesini del sud, spinti dalla ricerca di un lavoro. Non sappiamo se il flusso s'arresterà. Comunque questa situazione fa soffrire sia noi sia loro” dice il parroco. “Loro perché costretti a partire, noi perché non è semplice per un'isola di 5.000 abitanti e un territorio così piccolo sopportarne il peso. Dobbiamo custodire la dignità di questo popolo e mantenere un minimo di sicurezza”.

    Finora, su quest'avamposto d'Europa in mezzo al mare, che dista meno dalla punta estrema della Tunisia, appena 60 miglia, che dalle coste della Sicilia, si è fatto l'uno e l'altro. A dispetto dei reportage allarmistici dei grandi quotidiani, molto criticati dai locali, che tendono a esagerare i toni, la situazione, almeno fino a ora, sembra sotto controllo. I tunisini sono liberi di circolare. Vista la capienza del Cpsa, solo 800 posti, di fronte all'arrivo di migliaia di persone le autorità infatti hanno deciso di lasciare i cancelli aperti. “Lo spazio è poco, chiuderli dentro avrebbe acuito la tensione”, dice il questore vicario di Agrigento, Ferdinando Guarino. E' una misura dettata dall'emergenza e ispirata al buon senso. Così anche se clandestini e privi di documenti, i tunisini girano indisturbati per le vie di Lampedusa, presidiate discretamente da polizia, carabinieri, Guardie di Finanza. C'è chi li ha visti fare shopping, comprare magliette, andare al supermercato. Angela, la moglie del musicista Antoine Michel, gloria locale per altro nato a Sousse da una famiglia lampedusana vissuta nell'ex protettorato francese, e che dal 2003 ogni settembre con Claudio Baglioni organizza “O' Scià”, festival per i migranti, dice di averne visti alcuni usare un bancomat per prelevare euro, “perché i dinari tunisini qui non li cambiano e poi servirebbe il passaporto”. E infatti, i più prudenti, come i carabinieri, si domandano: “Per ora, va tutto bene, ma cosa accadrà quando avranno finito i soldi?”.
    Molti, quasi tutti, non hanno documenti o dicono di non averne. “Li ho buttati a mare, durante la traversata”, confessa per esempio beffardo Omar, 25 anni, pescatore di mestiere, originario di Tataouine, e mostra fiero il video che immortala il gesto, registrato sul telefonino. Con altri compagni di avventura, Ali, 35 anni, che viene da un paese di frontiera con la Libia e Sherif, 37, che invece vive a Djerba e di professione fa la guida di dromedari, sono seduti al Café Royal sul corso principale. “Prendono cappuccino, caffè, stanno tranquilli, ascoltano la televisione” dice dal bancone Daniele Vitale, calvo, pizzetto e mosca sul mento e sguardo sereno. “L'allarme qui lo fanno i giornalisti”, aggiunge. I tunisini in effetti per ora sembrano turisti. Usano le prese elettriche per ricaricare i telefonini, chiacchierano, fumano. “Italiani, francesi tutti uguali” dice Sharif, quello dei dromedari. “Perché persone italiane vengono albergo Brava Club? Noi diamo loro benvenuto. Ora noi come loro venire a Italia. E perché voi no fate stessa cosa? Scusa domani cosa fai per noi? Berlusconi cosa ha detto?”. Il padre di Sharif è vecchio, dice lui, e non lavora. “A Tunisia non c'è lavoro”. Molti come lui non sanno cosa accadrà, cosa riserva il futuro. Non sanno che data la situazione in Tunisia potrebbero chiedere l'asilo politico in Italia, ma se l'ottenessero non potrebbero lasciare il territorio nazionale e svanirebbe così il sogno di raggiungere la Francia, la Germania, il Belgio, e gli altri paesi d'Europa dove molti di loro dicono di avere amici, parenti, fratelli. “Se non chiederanno l'asilo”, ci spiega infatti la portavoce dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati, Laura Boldrini, “dopo gli accertamenti per l'identificazione molti di loro riceveranno l'ordine di lasciare il territorio italiano entro cinque giorni. Questo dice la legge. Solo che il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha detto che per mandarli via serve un accordo bilaterale, che ora non c'è. Pertanto non credo sia possibile rimpatriarli in tempi brevi”. E' questa l'emergenza umanitaria, uno stato di fatto imposto dalle contingenze, dal crollo del regime di Ben Ali, che sospende il rigore delle norme e accresce l'incertezza.

    Di sicuro per chi è sbarcato a Lampedusa c'è solo la macchina dell'accoglienza, messa in moto da prefetti, questori, forze dell'ordine, e dalle molte associazioni di volontari che si prodigano per gli ultimi della terra. Appena sbarcato, ogni clandestino riceve infatti una tessera per i pasti alla mensa, su cui c'è scritto a mano il numero di ingresso, che serve poi a stabilire l'ordine di partenza. I clandestini ricevono anche “un kit vestiario e per l'igiene”, una scheda telefonica e sigarette. “Dieci al giorno” precisa Cono Galipò, l'ex sindacalista della Cgil oggi amministratore delegato di “Lampedusa accoglienza”, la società che attraverso un consorzio di cooperative di Catania gestisce il centro. Il kit comprende rasoio, spazzolino, dentifricio, bustine di shampoo e sapone, pantaloni, mutande, un gilet, una camicia, lenzuola e coperta. “Scarpe no”, dice Alexandre, 25 anni, pittore di Zarzis, numero di sbarco 1.375, mostrando il pantalone nero in acetato. Dice di essere l'unica fonte di reddito per la sua famiglia, padre, madre, cinque sorelle. Guadagna 6-7 dinari al giorno, circa 210 dinari al mese. “La vie est très difficile, surtout pour nous, les pauvres”, dice seduto sul muretto del Centro di accoglienza. Circondato da Salem, 17 anni, pasticciere e figlio di muratore, sbarco n. 1.948, da Fouad, 25 anni, tassista di Tunisi, sbarco numero 332, figlio di autista di bus, da Said, 17 anni, restauratore, figlio di commercianti di Medenine, da Moncef, 26 anni, originario di Gabes, diploma di tecnico industriale, disoccupato, Alexandre racconta di aver pagato 2.000 dinari per arrivare a Lampedusa, circa 900 euro, la stessa cifra che dicono di aver pagato tutti. “On paye le risque: il y a la mort devant toi, ou tu rentres ou tu meurs”, spiega Sameh, 23 anni, da Zarzis, studente di architettura figlio di un pensionato. Sulla barca, che ora giace fra le altre nel cimitero dei relitti sul porto, erano ottanta. E i piloti? “Ce n'erano quattro cinque per barcone. Sono sbarcati con noi. Sono qui fra noi. I soldi però sono rimasti a Tunisi”. E si capisce, allora, come ognuno di loro abbia pagato direttamente per la barca, non solo per il passaggio.

    Alexandre è il più acceso del gruppo. Ha una sua coscienza politica. “Il dittatore Ben Ali ha fatto questo per noi”, dice con un trasporto. “Leila Ben Ali ha case da per tutto, Hammamet, Zarzis, Gabes, Barcellona, mentre io sono senza lavoro e ho una famiglia da mantenere”. Con la libertà aumenta la delusione e con la delusione il rancore. “La verité en Tunisie? Quand tu trouves le piston tu trouves le travail. Sans piston, tu ne travailles pas”. O sei raccomandato, o niente. “Ma il povero, rimasto attaccato alla suola di scarpe di Ben Ali se resta in Tunisia muore”. I suoi compagni lo stanno a sentire. Hanno tutti una storia da raccontare. Abdel, di Zarzis, 40 anni, di mestiere pescatore, dice di aver impiegato quattro anni per mettere da parte i 2.000 dinari per fuggire. Mohamed, 25 anni, parrucchiere di Tunisi, figlio di un venditore di frutta secca, dice di voler andare “chez la France”. Ha uno zio a Argenteuil, banlieue di Parigi, che forse fa il “boulanger”. E lui sogna “un bel travail, avec une calme, et une belle mentalité, une mentalité européenne”. Fouad, tassista con la faccia triangolare e l'occhio vivo insiste per darmi l'esatta traslitterazione di “Melishiet” la polizia di Ben Ali, 3.000 agenti che continuano a dare la caccia ai dissidenti, a vietare, proibire, reclamare documenti, arrestare innocenti e condannarli a morte. “Ils font beaucoup de bêtises”, aggiunge Alexandre, che spara di conoscere almeno 300 morti uccisi di recente per mano di Melishiet. “Hanno ucciso molta gente, anche dopo la rivoluzione del 14 gennaio. Per fortuna adesso i militari li prendono e li arrestano”. E' questo il terrore che gli ultimi migranti vogliono fuggire.

    Lampedusa ai loro occhi appare un'oasi di pace e il Centro di accoglienza una specie di club Mediterranée. Il centro dista qualche chilometro dal centro, arroccato sul Monte Imbriacola, “il monte degli ubriachi dove prima c'era l'esercito”, spiega Emanuele Billardello, il genius loci, che funge da servizio taxi. Al cancello è appeso un lenzuolo con una scritta in rosso “Grz Lampedusa”. E' lo stesso che i clandestini hanno portato in processione, sfilando in città. Il centro è composto da strutture prefabbricate, la prima entrando è quella dell'Alto commissario Onu per i rifugiati, trasformata subito in ostello per i minori. “Perché la regola che ci siamo dati è noi fuori, loro dentro”, dice il responsabile Federico Miragliotta, 32 anni, capelli neri lisci e lunghi, piglio da centro sociale, figlio di geometra e da par suo avvocato, “mestiere che ho abbandonato per seguire questa pazzia del sociale”. Anche lui come Galipò è originario di Capo d'Orlando, la cittadina del messinese dov'è nata l'associazione antiracket intitolata a Libero Grasso.
    Mentre parliamo scoppia un tafferuglio. Un tunisino corre a torso nudo, ha un buco dietro la nuca, frutto probabilmente di una sassata, e rivoli di sangue che scorrono lungo la schiena. Il clima è teso. Un altro tunisino s'avvicina. Gesticolando, con qualche rara parole d'italiano misto a francese, cerca di spiegarci la topografia del male: “Questa Tunisia. Sud buono. Nord no buono. Venti trenta persone di Nord fanno bagarre. No bene, mafiosi”. Chiede aiuto. Makrem è piccoletto, stempiato. Ha 38 anni, ma ne dimostra 50. Parla di scontri a fuoco, di agenti della polizia che sparano a vista sulla popolazione. “Pas de liberté, pas de securité”. Appena usciamo fuori dai cancelli del centro, insiste. Anche qui dentro c'è un problema di sicurezza, ci sono una decina di persone che prendono soldi, rubano i telefonini, e fanno “la bagarre”.

    Sarà anche per questo, per non alimentare le tensioni a fior di pelle, che i giornalisti sono pregati di uscire. Hanno appena avuto il tempo di visitare i locali del centro. L'ex sindacalista Cono Galipò mostra il nuovo padiglione ricostruito dopo l'incendio del 2009, e oggi destinato ai minori intercettati da Save the Children, che hanno il diritto di dormire separati dagli adulti. Mostra l'infermeria, mostra i reparti per soli uomini, perché le donne, in tutto 35 con i loro nuclei familiari, vengono alloggiate in albergo. Nelle cucine, il direttore commerciale della Blue Coop, Salvatore Campanella, illustra il menu del giorno, “piatto unico a base di pasta al pomodoro, con sopra un uovo sodo, un secondo a base di pesce”, trattasi di bastoncini findus, “poi frutta, acqua e pane”. Sette inservienti in tocco e camice bianco riempiono di penne fumanti i piatti di plastica e li ripongono sui carrelli per l'impacchettatura. Ogni giorno qui si preparano tre pasti per 1.800 persone.
    Ad esse si sommano altre 117 persone ricoverate nell'edificio destinato all'Area marina protetta e lì rimaste. “E' la logica” dice Miragliotta. “Sono liberi di uscire, non possiamo costringerli a entrare”. E infatti, all'Area marina bivaccano da una settimana, dormendo davanti alle vetrine con le anfore romane, e giocando a carte dietro la grande scala che porta al primo piano nella sala dei cetacei. Lì ritrovo Rafik, l'informatico, 23 anni, da Zarzis, che prende il sole. Martedì era entrato a chiedere un bicchier d'acqua al bar Mediterraneo di Silvana Lucà, la sociologa con master alla Bocconi, che ha lavorato all'Olivieri ed è ritornata sull'isola materna per accudire una bambina, figlia di una famiglia disastrata. “Sono tutti educatissimi e civili” dice la sociologa-barista che i clandestini chiamano “mamma”. “Niente a che fare con quello che abbiamo visto anni fa”. Arriva Ridha, 20 anni, denti bianchissimi e un sorriso fiero. Tira fuori il telefonino, per mostrarmi la sua foto da calciatore, in maglia giallo-nera. Sono i colori del Bengardane, in cui giocava come centravanti. “Solo che non ci sono più soldi”. Anche il fratello di Ridha è calciatore. E quando gli domandi cosa vorrebbe fare risponde: “Inshallah Franza, mais j'aime beucoup Inter, Juve, et si je pouvais faire un test, je resterai en Italie”.