Matrimonio senza interesse

Roberto Volpi

Millenovecentoquarantasei-quarantasette: l'Italia appena uscita dalla guerra si carica sulle spalle un numero incredibile di matrimoni: 854 mila in due anni, poco meno di dieci matrimoni all'anno ogni mille abitanti – un tasso che è quasi tre volte quello di oggi. Ma meglio è dire: un numero incredibile, e mai così alto, di matrimoni si incarica di prendersi l'Italia sulle spalle e di farla uscire dalla guerra. Già, perché il primo strumento che gli italiani imbracciano è proprio il matrimonio.

    Millenovecentoquarantasei-quarantasette: l'Italia appena uscita dalla guerra si carica sulle spalle un numero incredibile di matrimoni: 854 mila in due anni, poco meno di dieci matrimoni all'anno ogni mille abitanti – un tasso che è quasi tre volte quello di oggi. Ma meglio è dire: un numero incredibile, e mai così alto, di matrimoni si incarica di prendersi l'Italia sulle spalle e di farla uscire dalla guerra. Già, perché il primo strumento che gli italiani imbracciano, al posto dei dismessi fucili, per decuplicare le energie, ritrovare ottimismo e fiducia e rimboccarsi le maniche per tirar su un paese disastrato fino alla disperazione è proprio questo: il matrimonio.

    In molti pensano che il matrimonio abbia goduto di buona salute solo grazie al fascismo e solo sotto il fascismo. Ma non è andata affatto così. La riprova? Anche gli anni Sessanta, quelli dei Beatles, della rivolta giovanile, della libertà sessuale, così come del grande boom economico italiano, del definitivo salto del nostro paese nel progresso, nell'industrializzazione, nella modernità, con la motorizzazione di massa, l'esplosione dell'urbanesimo, lo sviluppo edilizio tanto irresistibile quanto disordinato e rapace, l'avanzare della femminilizzazione del lavoro, anche quegli anni che hanno cambiato gli uomini e il mondo l'Italia li ha letteralmente vissuti all'insegna del matrimonio. Anzi, se si considera che alla fine di un conflitto i matrimoni aumentano anche per effetto di quelli rimandati durante gli anni della guerra, effetto di cui non si sono evidentemente giovati gli anni Sessanta, allora non ci sono dubbi: mai il matrimonio è stato così trionfante quanto in questo decennio.

    I mitici, i rivoluzionari anni Sessanta all'insegna del matrimonio – oltretutto celebrato in chiesa in proporzioni bulgare come mai prima (99 matrimoni su 100 con rito religioso: insuperabile record assoluto)? Capisco le perplessità, ma le serie storiche delle statistiche sono acqua di fonte: cristalline, al riguardo. La tabula rasa dei costumi e degli atteggiamenti degli italiani operata dagli anni Sessanta gli fece un baffo, al matrimonio.
    Giacché, se tutto o quasi fu allora messo in discussione e rivoltato dalle fondamenta, il matrimonio italiano restò saldo nella sua centralità e fortissimo fino ai primi anni Settanta, lontano dal mostrare alcun vero segno di cedimento. Il cedimento del matrimonio comincia soltanto con l'arrivo del divorzio. Anzi, meglio, comincia all'indomani del referendum che col sessanta per cento dei voti disse no, nella primavera del 1974, alla cancellazione della giovanissima legislazione sul divorzio: non un giorno prima. Prima di allora giganteggia proprio come pilastro non soltanto della vita sociale e di relazione, ma pure di quella economica. Perché, non ci sono dubbi, tutto gira e si organizza, letteralmente, attorno al matrimonio.

    Intanto perché tutti si sposano: ricchi e poveri, chi ha già tutto e chi parte da zero. E questo è il primo elemento. E poi perché lo fanno decisamente presto, almeno rispetto ai canoni odierni (le donne a un'età media di 24 anni, addirittura sei anni meno di oggi). E questo è il secondo elemento. Dopodiché – ed ecco il terzo elemento – c'è tutto il tempo di mettere al mondo almeno due figli, più spesso tre e non infrequentemente quattro (e infatti la media dei figli si colloca di poco sopra i 2,5 figli per donna).
    Il matrimonio non soltanto certifica che “si comincia a fare sul serio”, dopo gli anni in cui soprattutto i maschi – molto meno le femmine – “hanno corso la cavallina”, ma nobilita sia il percorso che l'approdo: il percorso, perché ha comunque trovato il modo di concludersi con una inequivocabile assunzione di responsabilità, l'approdo perché quella assunzione di responsabilità introduce alla formazione di una nuova famiglia, con tanto di figli a seguire.
    Il matrimonio è l'autentico lasciapassare con il quale si entra nella nuova fase, quella davvero adulta, della vita. La fase ch'è appannaggio di famiglie che vantano forti vincoli di solidarietà al proprio interno e alti gradi di apertura verso l'esterno. Famiglie che funzionano da moltiplicatore degli sforzi individuali nella misura in cui, tutto il contrario di quel che si pensa oggi, aprono davanti agli occhi delle coppie prospettive di più lunga gettata e maggiore consistenza. Lo sguardo sul futuro delle famiglie è più rivelatore e intraprendente di quello dei singoli, va oltre il loro sguardo nella misura in cui si carica di responsabilità e attese che travalicano quelle puramente individuali. E sono infatti le famiglie il vero motore dello sviluppo anche economico, ben più che non i singoli. Non soltanto in quanto unità consumatrici, ma anche e proprio come unità di produzione. Sul lato produttivo, è infatti prima di tutto la famiglia che contribuisce a forgiare una forza lavoro di tutti i livelli pronta e intraprendente, molto attiva, che vede nel lavoro la possibilità di scalare i gradini prima ancora che della gratificazione personale della qualità della vita familiare. Su quello del consumo, gli alti livelli dei matrimoni, e dunque delle nuove famiglie, immettono di continuo nell'agone pubblico, e diciamo pure sul mercato, un carico tale di esigenze di fondo da soddisfare, a cominciare dal lavoro e dalla casa, di necessità di beni, specialmente durevoli, di più alti bisogni, dall'istruzione alla salute, da rappresentare una pressione costante per gli sforzi pubblici e privati in campo economico-produttivo. Quanto al successo di questi sforzi, la garanzia sta proprio tanto nei ritmi di formazione che nella solidità di fondo delle stesse famiglie. Per carità, niente miti. Ma ignorare questa storia, o addirittura ribaltarne il senso non è consentito. Nessuno obbligava gli italiani a sposarsi, a quel che risulta. Eppure ancora nel triennio 1971-1973 il tasso annuo di 7,6 matrimoni per mille abitanti era tale da superare alla grande quello di 7,2 fatto registrare nel decennio 1930-1940, in pieno regime fascista e vigente la tassa sul celibato. Sono dati che parlano da soli e dicono chiaro e forte che quando la legislazione sul divorzio, superato di slancio il referendum, andò a pieno regime il matrimonio godeva di ottima salute e del consueto, quanto formidabile, successo. Naturalmente questo ci pone di fronte a un interrogativo non di poco conto: com'è stato che il divorzio ha portato in men che non si dica al tramonto del matrimonio?
    Il divorzio ha prima di tutto cambiato l'assunzione di responsabilità di fronte al matrimonio: non più immediata, netta e definitiva, una volta per tutte, impegnativa come nessun'altra, ma dilatata, e in un certo senso annacquata, lungo tutto l'arco della vita matrimoniale in quanto sempre ritirabile, convertibile, spendibile in altro modo, in altre direzioni.

    I coniugi hanno già in partenza meno da chiedersi, e da pretendere vicendevolmente, rispetto al passato (si veda, del resto, alla voce, che non potrebbe essere meno matrimoniale, della “separazione dei beni”). La famiglia italiana, conseguentemente, ha cambiato volto procedendo dalla stabilità, almeno di facciata, alla variabilità. Ma la variabilità, ovverosia la possibilità di cambiamento, non è soltanto un asset, una possibilità sempre o quasi positiva di fronte al dramma di unioni malriuscite, come a suo tempo fu presentata, è anche perdita di senso e ripiegamento egoistico e rinuncia. E' dunque un matrimonio, quello nuovo, che di per sé non garantisce più, al quale non ci si può più affidare confidando che per il solo fatto di esistere, e di esistere nel modo tutt'altro che periclitante che abbiamo detto, sia capace di ergersi ad architrave di tutto il castello della vita adulta e responsabile. Ma se non garantisce più, se non è più quell'istituto che in fondo ti consentiva di sapere e capire fino a che punto si potevano spingere i tuoi passi, se diversamente i tuoi passi si possono dirigere ovunque e comunque, allora nella diversa assunzione di responsabilità implicita nel matrimonio ai tempi del divorzio si finisce per essere più soli di fronte a se stessi e insicuri come non mai. E in certo qual senso pure irresponsabili.
    Le corde del ring, come si possono considerare le “regole” del vecchio matrimonio indissolubile, non saranno comodissime ma ti tengono sul quadrato nonostante i colpi della sorte e della vita. A loro modo funzionano anche da protezione. Senza sei libero di prendere le direzioni che credi, di affacciarti dove vuoi, ma rischi la vertigine del vuoto.

    Il divorzio ha finito per togliere al matrimonio la sua aura protettiva, il suo marchio di garanzia, la certezza del prodotto, per così dire. Prima sapevi cosa prendevi, scegliendo il matrimonio, sapevi anche che poteva non funzionare e che se non funzionava erano dolori e di quelli veri. Col divorzio sai di avere una scelta, un'opzione, un'alternativa, e magari più di una, se le cose si mettono male, ma non sai più se e quanto il matrimonio potrà aiutarti affinché le cose non si mettano male. Tanto vale non sposarsi del tutto, allora. Qui è l'origine del tramonto del matrimonio che si va profilando – giacché, in effetti, non ci si sposa davvero più.

    Che di tramonto ormai si debba incominciare a parlare lo provano le ultime disastrose cifre dei matrimoni, che nel 2010 sono stati, secondo la stima dell'Istat, appena 216 mila, 15 mila meno dell'anno precedente e 30 mila meno di due anni fa, con una progressione discendente che data dal 1973, quand'erano quasi 420 mila in una popolazione di sei milioni inferiore a quella attuale. Siamo letteralmente sprofondati a un tasso di appena 3,6 matrimoni annui ogni mille abitanti, con punte di quasi inconsistenza attorno a tre matrimoni in molte regioni del nord, mentre l'età media della donna al matrimonio ha superato la barriera dei trent'anni. Se poi si considera che questi dati comprendono anche i sempre più numerosi secondi matrimoni il quadro si fa ancora più fosco. Da nazione ad alta nuzialità siamo diventati, nel quadro europeo, il fanalino di coda. E se non è tramonto questo.

    Che il matrimonio in Italia abbia retto
    , sotto la sferza del divorzio, meno che altrove è la paradossale conseguenza della sua grande forza trascorsa, del prestigio enorme di cui ha goduto, dello status ch'esso era capace di conferire di per sé. Né la caduta del matrimonio si ferma al matrimonio. Non a caso si sta scivolando da ogni parte, in tutti gli ambiti relazionali e sociali, economici, culturali, politici verso profili a bassa intensità di coinvolgimento e di responsabilità individuali. Il matrimonio ha aperto la strada, le famiglie ne sono seguite, inevitabilmente. E con famiglie ridotte ai minimi termini, atomi più che nuclei, anche il resto va rimodellandosi, anzi si è già in parte rimodellato, nel senso di una quasi puntigliosa contrazione dell'impegno personale nell'ambito delle imprese collettive i cui risultati si riverberano sulle comunità, di una continua limitazione di se stessi e della volontà di mettersi in gioco e di esporsi se non a fronte di contropartite sicure o almeno altamente probabili e di scarsi o nulli rischi. Il profilo della responsabilità si è andato abbassando di continuo, in seno alla società italiana. E, d'altra parte, la direzione che sempre più stanno prendendo i diritti individuali è esattamente questa del continuo abbassamento dei livelli di responsabilità personale richiesti in ogni ambito del vivere sociale.

    I giovani laureati chiedono di trovare un lavoro, com'è giusto, ma non vedo da decenni giovani che si devono laureare chiedere corsi di studi più impegnativi e avanzati per sapere di più, di uscire dalle università più preparati per il mondo del lavoro, e meglio ancora se avendo già una consuetudine con quel mondo. Si chiedono, per stare in tema, diritti e riconoscimenti per le coppie di fatto. Nessuno che abbia un poco di buon senso può capire perché, potendosi sposare civilmente in un amen, due persone di sesso diverso (tutt'altra cosa è per le coppie gay) non debbano farlo, se non considerando, appunto, che queste persone non intendono assumersi la responsabilità di un matrimonio, che preferiscono uno status di simil famiglia che assicuri loro il massimo dei diritti a fronte di un minimo di responsabilità.
    Nella società italiana a bassa intensità di responsabilità che si viene delineando e anzi rafforzando la ripresa da una crisi economica che abbia radici profonde come quella attuale è doppiamente faticosa. Il matrimonio è l'inizio di una catena formidabile che spinge in un senso preciso: quello di movimentare ed energizzare tutta la società, attivando risorse, stimolando talenti, sollecitando speranze e prospettive. Una delle leve, e non certo tra le meno importanti, che tanto hanno contato in passato per curarci dalla guerra, affermare la ricostruzione del dopoguerra, dare la spinta decisiva al boom economico offrendo a un tempo le braccia e i cervelli necessari tanto alla produzione che al suo assorbimento in termini di consumo, è praticamente fuori uso. Su di essa non si potrà far conto, proprio quando più ci necessiterebbe. E' un handicap formidabile. Se almeno chi di dovere cominciasse a rendersene conto.