"Ah, perché non son io con Lele Mora?"
Dove è finito lo splendore brioso del nostro teatro? La mia risposta mi stupisce, ma è definitiva: lo splendore brioso del nostro teatro è tornato. Infatti mi sono di nuovo innamorato di Berlusconi, sono preso di vero affetto e da vera comprensione intellettuale e morale per tutti e per ciascuno dei suoi celebri difetti. Ho parlato due ore con un inviato della Sueddeutsche Zeitung, e l'ho sfinito di chiacchiere dal fondo inevitabilmente amabile, gli ho detto che il Cav. è alla fine del ciclo, probabilmente, ma ci ha giocosamente cambiati.
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Al direttore – Il Paese del melodramma? Già Bruno Barilli, però: “Il nostro melodramma oggi è in uno stato di atrofia moribonda”. E poi: “Oggi la molla magica è spezzata. Gli spiriti sono fuggiti dalle nostre terre e, con essi, il genio, l'ispirazione”. E ancora, e circa la “naturale inclinazione favorita dal clima e dal paesaggio” della quale parla Massimo Mila: “Sui paesi gelati del Settentrione, anche quando fa bello, la luce vien giù così debole e fioca che la gente della città è costretta ad accendere tutti i lampioni per vedere se davvero c'è o non c'è il sole: allo stesso modo, noi, di questi tempi, diamo fuoco ai nostri innumerevoli becchi a gaz e incendiamo tutto il combustibile rimasto pur d'illuminare da vicino un mondo caliginoso, ridotto e basso, nel quale non si muovono più intenzioni né disegni plausibili. Dove è finito lo splendore brioso del nostro teatro?” (da “Il Paese del melodramma”, 1930).
Luca Rigoni
Occhio alla data, caro Rigoni. 1930. Occhio all'ultimo rigo del delizioso e mesto pentagramma di Barilli che ci proponi con un fondo d'amarezza. Dove è finito lo splendore brioso del nostro teatro? La mia risposta mi stupisce, ma è definitiva: lo splendore brioso del nostro teatro è tornato. Infatti mi sono di nuovo innamorato di Berlusconi, sono preso di vero affetto e da vera comprensione intellettuale e morale per tutti e per ciascuno dei suoi celebri difetti. Ho parlato due ore con un inviato della Sueddeutsche Zeitung, e l'ho sfinito di chiacchiere dal fondo inevitabilmente amabile, gli ho detto che il Cav. è alla fine del ciclo, probabilmente, ma ci ha giocosamente cambiati, ci ha offerto la possibilità di farlo, e che i suoi nemici assoluti sono orrore puro, sono orrore puro quelli al comando di una folla italiana infeconda e triste, quelli che per strada invece di incitarmi (e sono molti a farlo) mi tirano in faccia con brutalità la loro lagna su un paese da liberare, su un miserabile porco da mettere al rogo, e altre stupide bassezze e codarde. La visione su Repubblica tv del professor Zagrebelsky, di Umberto Eco e del bambino che recitava la litania del rogo mi ha tirato fuori da ogni imbarazzo. L'Elisir d'amore di Donizetti all'Opera di Roma, una meravigliosa parafrasi delle notti di Arcore, mi ha restituito tonnellate di allegria. Ho provato vergogna per i cacciatori di storie spionistiche, per i loro mentori azionisti, neopuritani, giacubbini. Per gli impiccioni e i ficcanaso. Altro che moralisti.
Il Foglio è testimone delle mie reazioni altalenanti, ciascuno ha una sua parte fragile, al telefono gridavo comicamente: “Non ne posso più, sono il nipote di Mario Ferrara”. Sono partito con l'umor nero. Ero veramente ridicolo, sebbene autoironico, con i miei lombi liberali. Ma non potevo evitare di dirmi che ci aveva messo nei guai per uno stronzissimo modo di vita. E ho scritto al principio che eravamo alla canna del gas, non fosse per la volontà di non dargliela vinta a quelli là. Gli ho poi detto: vada dai magistrati, ribaldo che non è altro, e ci riscatti con un gesto estremo. Lo volevo eroico e suicida, lo volevo fuori dall'opera buffa e sporcacciona in cui sembrava essere stato rinchiuso dalla fata cattiva. Leggevo le cronache di Boccassini-D'Avanzo, le sue gesta, le censure di Mauro, le geremiadi della Spinelli, e mi dicevo che da comunista ero stato una stagione all'inferno, da socialista craxiano mi rivoltolavo nell'impotenza, da ratzingeriano ero caduto fin troppo in alto, e da berlusconiano adesso mi bagnavo nel ridicolo. Invitavo a pranzo i miei più cari amici, esterrefatti anche loro, e ci guardavamo negli occhi: adesso lo mandiamo a quel paese, questo pazzo. D'altra parte sul Foglio lo avevo avvertito: siamo in un 24 luglio permanente, è faticoso vivere così per una Repubblica e per i suoi abitatori. Ma lui niente, una notte di Arcore dopo l'altra.
Tutto finito, caro Rigoni. Non ho più neanche voglia di dire quella scempiaggine ipocrita e autoindulgente: “Signora mia, preciso che le mie notti le passo altrimenti, ma in casa propria uno fa quel che gli pare”. Ho cambiato ottica e prospettiva, di fronte alla più canagliesca e torbida inquisizione, di fronte all'incapacità di capire come stanno le cose di quei giornali che sono letti alla luce dei lampioni che cercano il sole. Sono molto irritato con i miei amici del New York Times, con i miei amici dell'Economist, con chiunque mostri di non sapere com'è fatta l'Italia, come sono disposti sulla scacchiera della nostra altissima spiritualità politica i vari elisir d'amore, le danze allegre e ruffiane, i dialoghi da commedia dell'arte. Davanti a questi Tartufi e impostori malati di narcisismo tristo e di una religione civile cupa, senza Dio e senza Cristo, mi sento ormai invulnerabilmente berlusconiano. Mi sento legato al suo destino perinde ac cadaver, in assetto di obbedienza consapevole, come un gesuita dell'immoralismo e del suo Papa.
Caro Rigoni, rimpiango di non avere più il brio o l'età o la voglia di essergli accanto la notte, come Rossella che si ritira presto, come Fede che gli scuce i dobloni, come Mora che offre il suo casting, come Ruby che gli versa il sanbittèr. E quando ho ascoltato la telefonata registrata di Lele (non lo conosco ma voglio per una volta chiamarlo affettuosamente per nome), quel dialogo brioso in cui il professionista del casting prende per le corna il giovane giornalista bellâtre che lo provoca, lo insolentisce con i suoi bei modi, lo registra e lo manderà in onda, mi sono detto: “Ah perché non son io con Lele Mora?”.
PS Comunque Bruno Barilli, divino, scrisse quelle cose dopo essersi assunto le sue responsabilità di italiano come aveva giudicato giusto, avendo firmato il Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile, più o meno all'epoca in cui il progenitore di Zagrebelsky scriveva al Duce per una cattedra, ed è l'autore di un libretto dal titolo ultraberlusconiano: “Il sole in trappola”. Il nostro, l'Amor nostro, quando faceva il casting da privato cittadino, esclamava ai suoi cacciatori di consumo, di pubblicità e di libertà: “Dovete avere il sole in tasca”. E lui ce l'ha. Comunque riescano ad arrostirlo, l'energia di questi vent'anni ce la ricorderemo finché si campa.
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