E tu l'hai fatta la gavetta?
Se la gavetta non l'hai fatta – e ti ritrovi deputato o giornalista o conduttore televisivo magari solo per grazia ricevuta, come invocava Nino Manfredi da sant'Eusebio “protettore dell'anima mia” nell'apposito film, o forse per grazie più pragmaticamente concesse, diciamo – almeno una gavetta su eBay te la puoi comperare. L'evocata e invocata e blandida gavetta (che poi, quanto sulla sua necessità come sulla sua qualità, si discute e ci si accapiglia, come ultimamente, e come vedremo più avanti, hanno fatto Beppe Grillo e Gad Lerner) è una medaglia al merito.
“Quant'è dura stà gavetta / eppure la dobbiamo fare / quant'è dura stà gavetta / questa è la mia scelta / io voglio fare il cantautore / altro che gavetta qui ci vuole un gavettone / e che mi rinfreschi la mente / e che mi gonfi il cuore” (John Could, “Gavetta”).
Se la gavetta non l'hai fatta – e ti ritrovi deputato o giornalista o conduttore televisivo magari solo per grazia ricevuta, come invocava Nino Manfredi da sant'Eusebio “protettore dell'anima mia” nell'apposito film, o forse per grazie più pragmaticamente concesse, diciamo – almeno una gavetta su eBay te la puoi comperare. L'evocata e invocata e blandida gavetta (che poi, quanto sulla sua necessità come sulla sua qualità, si discute e ci si accapiglia, come ultimamente, e come vedremo più avanti, hanno fatto Beppe Grillo e Gad Lerner) è una medaglia al merito, un indiscusso riconoscimento sociale, presidio e scudo a ogni deprecabile illazione, a quel darsi di gomito di nascosto mentre si ostenta un sorriso di compartecipazione. “E tu, che gavetta hai fatto?” – è la domanda, meglio l'imperativo quasi morale che di dibatto in dibatto si rincorre, mentre ognuno all'altro la mancanza della stessa rinfaccia. Sgavettato (inteso, soprattutto, dati i tempi e le pratiche, quale femmina sgavettata – ed è da notare l'assonanza con una più vetusta e irriguardosa parola quale sgallettata), ecco, potrebbe essere il nuovo insulto sociale, i chiodi di molte future crocifissioni mediatiche. E chi la fa più, oggi, la gavetta? E' un quarto di nobiltà, la gavetta, se qualcuno l'ha fatta, se qualcuno la può certificare. E se la gavetta esistenziale non l'hai, quella reale ti puoi comprare, basta cliccare – fosse questa la gavetta: “Rara gavetta grande del Regio esercito italiano della seconda guerra mondiale orginale ed usato, ma in buone condizioni…” – euro 24,50. “Vecchia gavetta-baracchino militare d'epoca. Molto grazioso nella forma e utile. In alluminio…” – euro 19,99. “Gavetta completo esercito italiano come da foto, per fotografie dettagliate chiedetemi pure…” – euro 9,90, occasione.
Perché appunto, prima di essere il nuovo imperativo democratico, è la gavetta (come da apposito vocabolario Treccani) “recipiente di latta o lamiera zincata o alluminio, usato dai militari per mettervi il rancio soprattutto in tempo di guerra, ma anche durante le esercitazioni fuori guarnigione”. E così che “venire dalla gavetta” o “aver fatto la gavetta”, questo ha come significato: provenire dal basso, dal rancio mangiato in strada, dalla polvere dei fossi, “di chiunque sia giunto a una posizione di qualche importanza cominciando dal basso”. In giorni di molta dissipazione, di scarsa arte e d'instabile parte, ognuno tende a farsi (a crearsi, a ricrearsi, a rivendicare) la propria personale gavetta, come una volta, ed esattamente al contrario, si cercava socialmente un appiglio persino in qualche scombinato ramo secondario di mezza nobiltà provinciale, “per parte di una mia cugina della madre di quel mio zio”. C'è una singolare invulnerabilità, che la gavetta offre – pur anche se la gavetta, onestamente, all'atto pratico ben pochi preferiscono praticarla. Son tempi di culetti sodi e tette puntute, precoci innamoramenti e tardivi arrapamenti, di convenienze segrete e persino intriganti complicità – e dunque, che devo pure saper fare qualcosa? Così nel sesso, e mica solo nel sesso che i puritani incanta, così in politica, così nelle redazioni e così all'università – baronie! baronie! – così c'è da credere in altri ambiti o rami o uffici o caserme o sacrestie: è la gavetta evocata, e insieme lo scampare la stessa da ognuno di noi in seguito fervidamente invocata. Ma nel caso ci fosse toccata in sorte, è un figurone sociale che è un peccato tenere riservato. Mica solo per quanto riguarda le soubrette verso lidi parlamentari incamminate – sculettando, vabbé, ma con passo saldo sul tacco da quindici. A riprova, ecco un singolare (e certo, per gli appassionati a simili questioni, di un certo incomprensibile interesse) volume: intitolato “Ci metto la firma!” (Aliberti editore), scritto da Mariano Sabatini, che ha per sottotitolo: “La gavetta dei giornalisti famosi. Cosa facevano quando non erano nessuno”. E chi se ne frega? – una certa saggezza potrebbe portare a rispondere, ma sarebbe un errore: consola, forse, sapere che c'è della gavetta anche dietro un editoriale. Essendo poi sessanta i giornalisti interpellati sull'argomento, vastissima impresa – tutti di particolare bravura, si capisce, tutte braccia fortunatamente sottratte all'insegnamento del latino o alla preparazione di guide gastronomiche o di slogan pubblicitari (insomma, gavettine più che gavette) – trattasi di un non inutile scandagliamento.
E di una sacrosanta rivendicazione. Come tale risulta anche quella che si leva, nei dintorni dell'Olgettina, dal festoso carnaio berlusconiano. Ed ecco per esempio l'illuminante intercettazione della ormai famosissima Nicole Minetti, moralisticamente braccata in ogni pertugio del Pirellone – mentre persino con la Cnn ha dignitosamente duellato, pur quale “Silvio Berlusconi's dental hygienist”, oltre che “Lombardy Regional Councillor”, presentata – mentre al telefono conversa e s'infervora e rivendica con la sua amica Barbara Faggioli, di festevole adunanze pur essa impratichita: “Io almeno un po' di gavetta in politica l'ho fatta… non pensare che la Carfagna ne abbia fatta di più… eppure fa il ministro…”. E Barbara, perché poi ogni idea di gavetta è ovviamente soggettiva: “Ma stai scherzando? Prima di diventare ministro è stata un anno in Parlamento, amore!”. E' come una denominazione d'orgine controllata, la gavetta. E' quel minimo di riparo ai torti temuti, e sempre per imminenti previsti. Che poi, a (ri)dirla tutta: quanti ancora oggi fanno la gavetta? La gavetta di una volta, la trafila faticosa, la borsa da reggere, il farsi ombra alla luce del potente di riferimento, il delfino (a voler storicamente e dignitosamente rifarsi) piuttosto che la trota (a voler bossianamente convenire), i pranzi saltati, i silenzi ingoiati, le ferie sacrificate. E magari, migliore certificazione all'innovazione berlusconiana, di larga via e di larghissima manica (diciamo manica), si può considerare la battuta che un giorno, a inizio della scorsa legislatura, nel cortile interno di Montecitorio, scappò a un fresco ex deputato del piddì, non ricandidato. Se ne stava lì, tra i compagni che un po' consolavano e un po' sfottevano per il mancato rinnovo del seggio parlamentare, quando una delle porte a vetro del Transatlantico si aprì, e fu un affluire, un debordare di fiume quasi, di novelle parlamentari berlusconianamente tarate – di gavetta, di quella almeno, apparentemente digiune. L'ex parlamentare scrutò e scrutò e scrutò. Quindi sospirò e sospirò e sospirò. Infine parlò – e tale e quale, pareva, il suo collega virtuale Cetto La Qualunque: “E 'sti cornuti del partito mio non m'hanno ricandidato! Proprio adesso che Berlusconi è stato di parola, e l'ha portato davvero più pilu pe' tutti, qua dentro!”.
Valutazioni dal cuor fuggite, saggiamente ripudiate dal civico sentire della civile società – che dunque incrocia le lame e animatamente dibatte sulle qualità della gavetta, o sui danni della stessa. Come hanno fatto Grillo e Lerner – alla faccenda applicati e della faccenda peraltro appassionati. Che tutto ebbe a cominciare la sera in cui Berlusconi guardava la trasmissione di Lerner (l'esaurirsi del bunga bunga lo sta spingendo verso lidi azzardati) e chiamò in diretta, “postribolo! postribolo!”, a difesa della Minetti, di molteplici virtù ornata, “ragazza preparata, madrelingua inglese, laureata con 110 e lode” (a Berlusconi, curiosamente, una laurea impressiona sempre). Ed è qui che Gad scattò – e il famoso discrimine lanciò in campo: “E questo le consente di saltare la gavetta della politica?”. S'infervorò Grillo: “In questa frase è racchiusa la differenza tra politica partecipata e politica professionale, di lungo corso, un mestiere che si impara. (…) Lerner ha scelto la superiorità del politico rispetto al comune cittadino…” – il quale Lerner, peraltro, risultava raffigurato con fucile sulla spalla destra e mano sinistra sui suoi due coglioni centrali. Precisato che “di solito tendo a sistemare i modesti attributi di cui dispongo lontano dai teleobiettivi”, l'infedele Gad rispose: “Sì, per me ci vuole la gavetta. (…) In democrazia anche chi è squattrinato e privo di curriculum accademici deve poter assumere incarichi elettivi. Ma è meglio, molto meglio se studia e dimostra agli altri aspiranti che per quel posto è preparato”. Segue, accanita discussione tra i sostenitori dell'uno e gli estimatori dell'altro, tra chi si rivolta contro Grillo, “vuole sconfiggere questa politica ma la sua gli somiglia troppo. Inneggia alla volontà popolare come Berlusconi”, e chi punta addosso a Gad, “mi fai incazzare di più quando fai il fighetto umile, Gaddino, sei un bugiardo”.
Non affratella, la gavetta. Anzi, piuttosto marca la differenza. Sostenitrice accanita della sua importanza in politica, per esempio, si è rivelata (sul Fatto) Sabrina Ferilli, in lode di Vendola, “un ragazzo capace, parla meravigliosamente, sa emozionare. E poi, ai miei occhi, ha un altro grande pregio: ha fatto in tempo a fare le scuole di partito”. Merito inderogabile, aver passato qualche settimana alle Frattocchie, gavetta suprema, “non è stato anche questo a far vincere la destra, l'idea che ci si poteva improvvisare politici dal nulla?”. E ancora: “Non ho alcun razzismo per chi viene dal mondo dello spettacolo. Però, prima di parlare, studia dieci anni. Non è possibile avere un personale politico che viene dal mondo delle soubrette e del manicure”. Ecco il razzismo, le dicono… “Al contrario: lo dico con molto rispetto per le due categorie. Se per fare quei mestieri devi fare la gavetta, come può essere il contrario per fare politica?”. Con il babbo dirigente del Pci alla scuola di partito, la morbida Sabrina, poi la personale gavetta da militante, “quanti manifesti, quante riunioni… e poi i giri per i paesi, insieme a Luigina, una mia amica che aveva la Dyane… mettevamo le trombe dei megafoni sopra il tettuccio, e giravamo: a Tiberina, a Nazzano, a Castellana a ripetere: alle ore otto, nello spazio della festa, interverrà il compagno Pajetta!”. Gavetta esemplare, pur se il destino benigno altrove spinse la compagna Sabrina da Fiano Romano. Ed è appunto caratteristica dei giorni presenti, questa rivendicazione – anche simbolica. Così che la gavetta come esperienza di vita si muta in gavetta quale vessillo di lotta. E un paio di anni fa, al grido di “Veniamo dalla gavetta torniamo alla gavetta”, il ritorno sulla scena della stessa – con tanto di “Menu della schiscetta” – fu organizzato causa protesta contro il carovita montante. E la gavetta che era militare si mutò – in rimembranza, in adeguamento a strumento di lotta – nella gavetta che era degli operai, “pentola e piatto insieme, era chiusa da un coperchio e da un fermaglio”, e la lotta era da mutarsi in internazionalista, e perciò tanto l'italica gavetta quanto il “lunchbox” americano e persino il nipponico “bentobako” furono evocati – insieme a un fiorire di battagliere gamelle, tupper-ware, baracchini…
Ma di ben altra gavetta parliamo. Che Berlusconi – magari a preciso attruppamento estetico, magari a solida convinzione liberale e libertaria – ha abolito: si farà, la giovane gnocca, non meno di come Casini con Forlani si fece, persino Occhetto con Natta, e magari Quagliariello con Berlusconi. E quello che dopo arriva, che rende superfluo quello che prima c'è stato. Per dire: forse che prima di incrociare Carlo Ponti, Sophia Loren avesse fatto una gavetta tale da trasformarla da piazzaiola napoletana in diva internazionale? Fu l'intelligenza del futuro marito, che vide le forme e intravide il talento. E così non a caso, oggi, Christian De Sica dice di Belén Rodriguez che “se trova il suo Carlo Ponti diventa la nuova Loren”, e del resto la diretta interessata, sul palco di Sanremo in compagnia di Elisabetta Canalis, ha tenuto a far sapere: “Sì, sono la più amata, ma la gavetta l'ho fatta”. A simile saggezza cinematografara del Dopoguerra (pur in ambito più propriamente televisionaro) forse il Cavaliere – danzante e liberale e barzellettiere – si è rifatto. Estendendo l'intenzione generosamente, più che a una singola persona, all'intero casting per una scena di massa di “Ben Hur”. La gavetta, come una volta il servizio militare, come sempre l'interrogazione di matematica, nessuno vorrebbe subirla. In politica essa richiede, contemporaneamente, doti di pazienza e tecniche di assassino (politico, si capisce: essendo il gavettiere quello che un giorno dovrà far fuori la sua primaria stella cometa). Ma l'innovativa, non meno che perigliosa, strada indicata dal premier, magari con qualche palo di lap dance piantato agli svincoli dell'ideale percorso, adesso accuserà sicuramente un colpo. In giro, a scrutare agenzie e pagine di giornali e Internet, par d'intendere tutt'altro andazzo. Perciò “la lunga gavetta di Valerio Scanu” è in buona evidenza, mentre l'allenatore della Roma Ranieri qualche mese fa annunciava “gavetta finita, è ora di vincere” – e magari era meglio con la gavetta proseguire, mentre l'attore Leo Gullotta è persino anagraficamente preciso: “La mia gavetta cominciò quando avevo tredici anni”. Mancata gavetta ha evocato Renato Zero valutando i ragazzi che zompano e canticchiano in trasmissioni come “Amici” e “X Factor”, e perciò “bisogna fare la gavetta come l'hanno fatta i Baglioni, i Cocciante e i Renato Zero”.
E, siccome simili aspirazioni ha il proletariato non meno che la più regale nobiltà, ecco Emanuele Filiberto di Savoia rifiutare un programma in prima serata (e magari la gavetta andrebbe imposta pure a chi glielo ha proposto) per modestamente rinculare: “Non me la sono sentita e ho preferito rimandare a settembre, accettando di continuare a fare la gavetta per imparare bene il mestiere. (…) Farò il valletto di Pupo, che per me è un grande insegnante…”. Noblesse oblige. Qualche anno fa, su Repubblica, si poteva ancora trovare un pezzo così intitolato: “Donne soldato senza gavetta subito ai posti di comando”. E gavetta, per passare da Scanu a qualche livello superiore, ha rivendicato per sé Sir Michael Caine – figlio di un pulitore di pesce: “Mi considero un simbolo e un esempio per la classe operaia inglese”. Nientemeno. E non può quindi, la Minetti, essere assunta a simbolo della classe politica italiana? Non è stata proprio la Carfagna, la tenera Mara – unta quale ministro in un fuoco d'artificio di mille battute, e rivelatasi capace e misurata, fino a qualche disobbedienza antipadronale – l'apripista, la scia luminosa, il decente epilogo (ché pure un calendario, con certi mesi oggettivamente posizionati in maniera complessa, come gavetta non è da scartare)? Forse troppo avanti, Berlusconi, con la sua idea dell'abolizione della gavetta – né l'ha sostenuto un Petronio, piuttosto un Signorini. Ma difficilmente alla gavetta si tornerà. Tutt'al più, invece della vecchia “schiscetta”, all'ora di pranzo ci si farà compagnia con il cestino delle comparse. In attesa che si accendino le telecamere. O che almeno finisca la legislatura.
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