Diario di Pace
Salvati dal febbrile Benigni, che la storia d'Italia la ama tutta davvero
Meno male che c'è qualcuno che crede davvero nella grandezza della nostra storia, da Roma al Rinascimento, al Risorgimento. Che si lascia andare all'enfasi senza cadere nella retorica. Che non cede alle sirene dei revisionismi, che non se ne sta a pontificare, a spaccare il capello in quattro, a distribuire torti e ragioni, meriti e demeriti come tanti altri che finiscono immancabilmente per comunicare diffidenza e diffondere depressione. Meno male che c'è qualcuno che lascia intendere che la nostra storia bisogna accettarla totalmente.
Leggi Due o tre cose su Benigni a Sanremo da Cerazade - Leggi La retorica di Benigni e il realismo di Cacciari da Cambi di stagione
Meno male che c'è qualcuno che crede davvero nella grandezza della nostra storia, da Roma al Rinascimento, al Risorgimento. Che si lascia andare all'enfasi senza cadere nella retorica. Che non cede alle sirene dei revisionismi, che non se ne sta a pontificare, a spaccare il capello in quattro, a distribuire torti e ragioni, meriti e demeriti come tanti altri che finiscono immancabilmente per comunicare diffidenza e diffondere depressione. Meno male che c'è qualcuno che lascia intendere che la nostra storia, non solo i centocinquanta anni dall'Unità a oggi, bisogna accettarla totalmente, conoscerla e amarla semplicemente perché nostra, irripetibilmente nostra. Non solo Dante, non solo Berlinguer, dunque: è un nuovo Benigni quello che celebra l'Italia unita. Il Foglio che, pur ammirandone il talento da guitto fece in passato campagna contro l'icona furba della sinistra di regime, non può che applaudire questo arcitaliano lunare che stravede come nessuno per il proprio paese, l'innamorato esaltato che l'esaltazione, la trasmette anche.
Eppure di premesse per temere il peggio ce n'erano. Il cerimoniere Gianni Morandi che da due sere ripeteva ossessivamente “stiamo uniti”. Il presidente della Rai che al Tg1 fa sapere che la Rai fa cultura ed è la più grande azienda culturale italiana. Il direttore generale che si prende per un televenditore come Lee Iacocca e sempre al Tg1 mostra la compilazione patriottica. Né mancava il contorno di ministri. Tutto insomma congiurava a che nella terza sera di Sanremo si consumasse il peggio della retorica e della cultura cosiddetta nazional-popolare. Un brivido alle 22,24 quando Belén Rodriguez grida “pace nel mondo”, ma chi le scrive le battute? Poi arriva Benigni: in sella a un cavallo bianco, il tricolore in mano, è subito too much, oltre il kitsch. Lancia pure qualche battuta più che telefonata, mira alle palle di Morandi come già in passato di Pippo Baudo, ride in modo nevrotico, compulsivo come se bastasse questo per contagiare il pubblico.
Il brivido si fa timor panico. Ma appena comincia l'esegesi delle parole scritte da Mameli, il Canto degli Italiani, si trasfigura. E cambia la percezione del pubblico televisivo televisione. Per venticinque minuti c'è solo questo uomo dal corpo minuto in preda a una passione febbrile, smodatamente febbrile. Sembra davvero inchinarsi ai tre colori che Dante vede addosso a Beatrice e saranno quelli della nostra bandiera. Soggiogato dai grandi uomini e donne che hanno fatto l'Italia, persino dai carbonari e da quei Savoia Biancamano che saranno pure finiti dalle parti di Pupo ma sono comunque fra le più antiche dinastie d'Europa. Commosso dai tanti “pronti alla morte”, parole che mai furono dette così tanto per dire. E grato a Scipione, quello dell'elmo, che sconfigge Annibale e fa sì che non fossimo “mediorientali”. Quando canta a cappella l'inno, Benigni è comprensibilmente stanco, provato. Ma tiene lo stesso fino alla fine. L'hanno visto in quindici milioni. Un record. E un'ottima cosa.
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