Il sangue delle rivoluzioni
Il regime di Gheddafi rischia la morte violenta, e lui se l'aspettava
"Il regime di Muammar Gheddafi sta morendo di una morte violenta e orrenda. Un regime colpevole di atti terribili che è sopravvissuto soltanto sulla paura del suo popolo ora sta perdendo la sua presa", dice al Foglio Bruce Riedel.
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"Il regime di Muammar Gheddafi sta morendo di una morte violenta e orrenda. Un regime colpevole di atti terribili che è sopravvissuto soltanto sulla paura del suo popolo ora sta perdendo la sua presa”, dice al Foglio Bruce Riedel. Ex funzionario della Cia oggi al Saban Center for Middle East Policy della Brookings Institution, Riedel ha appena pubblicato un libro sul jihad globale, “Deadly Embrace: Pakistan, America and the Future of Global Jihad”, dopo aver diretto, per la Casa Bianca di Barack Obama, il progetto di revisione della politica per Afghanistan e Pakistan conclusosi nel marzo del 2009. Riedel oggi commenta quel che sta succedendo in medio oriente e Maghreb: la transizione egiziana, il vuoto di potere tunisino e il contagio che ha scatenato in Libia la più grande repressione dall'inizio della cosiddetta “primavera araba”.
Sul suo blog, ancora in tempi non del tutto sospetti, Riedel aveva scritto che “Muhammar Gheddafi, il più longevo tra i leader globali, quarant'anni di leadership, era pronto ad aiutare Hosni Mubarak a stare al potere perché temeva di essere il prossimo a cadere”. Solidarietà tra dittatori. Oggi aggiunge: “Gheddafi è stato a lungo preoccupato perché la situazione demografica della Tunisia e dell'Egitto è la stessa di quella libica: un altissimo numero di giovani con pochissime prospettive di lavoro. La Libia, naturalmente, dispone di una ben maggiore ricchezza petrolifera procapite rispetto all'Egitto o alla Tunisia, ma questo non si è tradotto in un maggior numero di posti di lavoro. Il regime libico è nelle mani di una cricca brutale e violenta, che ha sempre mostrato un totale disprezzo per i diritti umani”. I fatti di queste ore lo dimostrano, con un'incognita ulteriore rispetto al futuro egiziano: chi può rivestire il ruolo di mediatore nella transizione libica? Tra i clan, le brigate di mercenari che combattono a cottimo a favore del regime, la guerra di successione tra i tanti figli del rais, i confini aperti, il pericolo di un esodo e la violenza che non accenna a diminuire, è difficile trovare una figura che possa fare quel che ha fatto l'esercito in Egitto. Al Cairo ci sono stati più di 300 morti, ma la piazza ha trovato un interlocutore finora credibile cui affidare la prima parte della transizione. C'è da fidarsi? I Fratelli musulmani cercano ora di raccogliere i frutti del “regime change”, e l'esercito? C'è il generale Tantawi e c'è il sempiterno Omar Suleiman. Spesso bollato dagli egiziani come il “lacchè” di Mubarak, “per tutti gli ultimi vent'anni Tantawi ha guidato l'esercito egiziano basandosi sul principio della assoluta fedeltà al suo comando – spiega Riedel – Insomma, nel suo esercito non si faceva certo carriera promuovendo innovative politiche riformiste. E' per molti aspetti il simbolo del vecchio regime”. Anche Omar Suleiman, aggiunge Riedel, è molto simile a Tantawi: “Sono loro due i più forti scagnozzi del regime di Mubarak. Comunque, gli egiziani sembrano per ora averli accettati in quanto sono entrambi consapevoli che c'è un diffuso malcontento nei confronti del vecchio sistema: entrambe le parti dovranno accondiscendere a notevoli compromessi”.
Le conseguenze stanno toccando tutti i paesi della regione. “Nel mondo arabo è iniziata un'èra completamente nuova, e stiamo navigando in acque sconosciute. Quello che sta accadendo non ha precedenti. Perciò, non mi sento in grado di escludere nulla. Ciononostante, rimane difficile che scoppino grandi rivolte popolari negli stati del Golfo, fatta eccezione per il Bahrein, che costituisce un caso a sé in quanto c'è una popolazione a maggioranza sciita già da parecchio tempo alquanto irritata con il suo monarca sunnita”. I sauditi sono molto preoccupati, ma la Casa Bianca di Obama che cosa fa? “Il presidente è stato criticato per non avere prontamente sostenuto la rivoluzione egiziana, ma ci sembra comunque ben più tempestivo in confronto ad alcune dichiarazioni uscite da Bruxelles che, almeno fino a quando Mubarak non si è dimesso, sono state così contorte da risultare quasi incomprensibili. Francamente, non so quali siano le risposte più adeguate per questo problema, ma ci conferma che dobbiamo cercare di promuovere al più presto possibile la transizione verso sistemi di governo stabili e civili, in grado di intraprendere il gigantesco compito di avviare riforme economiche che garantiscano un sufficiente numero di posti di lavoro per tutti gli egiziani, i tunisini, i libici, gli algerini e i marocchini. La mancanza di lavoro non è certo la sola ragione del loro malcontento, ma è senza dubbio una delle principali cause dell'instabilità”.
Ma l'occidente si sta ancora riprendendo da una crisi finanziaria globale, come si fa a predisporre un Piano Marshall per l'Africa del nord quando ci sono stati in default all'interno dell'Unione europea? “Siamo tutti al verde – ricorda Riedel – Non mi sembra affatto un caso che le rivolte del nord Africa siano scoppiate proprio a seguito di questa recessione economica globale. La ridotta crescita economica globale non ha fatto che peggiorare la situazione in paesi come l'Egitto e la Tunisia”. Anche in Iran il contagio ha contorni non estranei alla situazione economica. “Teheran presenta la stessa situazione demografica dell'Egitto e della Tunisia, ossia un enorme numero di giovani scontenti; ma la differenza sta nel fatto che l'opposizione iraniana sa perfettamente che il regime è pronto a usare la forza. Nel mondo arabo, come anche in Iran, moltissime persone sono oramai schierate dalla parte di chi desidera un cambiamento in senso democratico, e dovremmo appoggiarle e sostenerle. Però dobbiamo anche stare ben attenti a non incoraggiare la gente a mettere a rischio la propria vita. Questa è una decisione che ogni individuo deve prendere singolarmente. Non può essere presa dagli americani o dagli europei. Non esorterei il popolo iraniano a sollevarsi. E' una decisione che devono prendere gli stessi iraniani, e non noi”.
Poi c'è il timore che le forze islamiste vogliano approfittare del vuoto di potere. Kenneth M. Pollack, collega di Riedel alla Brookings Institution, ha pubblicato sul Wall Street Journal un articolo in cui sosteneva che “al Qaida potrebbe dirottare e appropriarsi della rivoluzione egiziana”. Anche Riedel ha sottolineato che al Qaida è rimasta “stranamente silenziosa”: come mai? “Finora al Qaida ha avuto un ruolo del tutto marginale negli eventi dell'Egitto e della Tunisia. E' stato twitter e non il terrorismo a rovesciare Mubarak. La visione di al Qaida, secondo cui soltanto il jihad violento può produrre il cambiamento, si è dimostrata errata; ma se queste rivoluzioni falliranno e Tantawi e i suoi generali fermeranno il corso della storia, allora al Qaida potrebbe avere la propria chance. Ecco perché è importante che in questo conflitto ci schieriamo dalla parte giusta della storia”. Del resto la rivoluzione è appena iniziata, “è molto più facile rovesciare un dittatore che costruire una democrazia”.
traduzione di Aldo Piccato
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