Il sangue delle rivoluzioni
Tripoli e petrolio
E' nuovo record per il prezzo del greggio, con il Brent che ieri ha segnalato lo stato di crisi del medio oriente. Il future con scadenza ad aprile ha registrato un progresso del 2,362 per cento, toccando quota 105 dollari al barile.
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E' nuovo record per il prezzo del greggio, con il Brent che ieri ha segnalato lo stato di crisi del medio oriente. Il future con scadenza ad aprile ha registrato un progresso del 2,362 per cento, toccando quota 105 dollari al barile. Lo scenario libico ha fatto precipitare i titoli delle aziende italiane più esposte. A partire dall'Eni che è il primo player straniero in Libia: il titolo del gruppo petrolifero a Piazza Affari ha lasciato sul terreno il 5,44 per cento. Hanno sofferto anche altri grandi gruppi italiani presenti a Tripoli, come Impregilo (che ha perso il 6,11 per cento), Finmeccanica (meno 2,42 per cento) e Fiat Industrial (meno 2,9 per cento). Tutte le aziende in questione stanno cercando di rimpatriare i dipendenti in queste ore.
La situazione della Libia è un problema geopolitico che riguarda da vicino l'Italia. Ieri il numero uno di Gazprom, Alexei Miller, ha detto che quanto accade a Tripoli deve far riflettere sugli approvvigionamenti, dopo che la settimana scorsa Eni e la società russa avevano firmato un accordo per la compartecipazione nel giacimento di gas libico Elephant. Secondo gli analisti, tuttavia, il caso non influirà più di tanto sulle dinamiche del petrolio. Secondo le stime di Capital Economics il rischio Libia pesa per 5-10 dollari al barile sui nuovi rialzi; nonostante alcune importanti riserve e la membership dell'Opec, il paese di Gheddafi in realtà produce soltanto un milione di barili giornalieri e rappresenta soltanto il 2 per cento dell'intera produzione mondiale. Se anche ci fosse una carenza produttiva in Libia, ha detto il numero due dell'Agenzia internazionale dell'energia, Richard H. Jones, “nessuno registrerebbe gravi problemi”. Questo non significa che i prezzi del greggio si fermeranno. Semplicemente, l'effetto non dipende da Tripoli: secondo un report di Blackrock uscito ieri, il 2011 vedrà una nuova fiammata dei prezzi per motivi strutturali. L'aumento della domanda è dovuto alla ripresa dell'economia mondiale (con il terzo trimestre del 2010 che ha visto un tasso di crescita annuale fra i più rapidi degli ultimi trent'anni), mentre la crescita dell'offerta dei paesi non Opec è destinata a salire soltanto dello 0,4 per cento all'anno fino al 2015 (un tasso assai inferiore rispetto alla media annua dell'1,3 per cento degli ultimi dieci anni). In questo scenario, un ruolo fondamentale continuerà a svolgerlo l'Opec, e al suo interno il suo peso massimo, l'Arabia Saudita. Oggi a Riad si terrà un incontro dell'International Energy Forum, che raduna i novanta maggiori produttori e consumatori di petrolio del pianeta. Con la sua azienda di stato Saudi Aramco il più grande player mondiale di idrocarburi, l'Arabia Saudita, produce 12,5 milioni di barili al giorno e potrebbe venire incontro alle carenze di altri paesi Opec, pompando altri tre milioni di barili giornalieri verso l'Europa e gli Stati Uniti se si verificassero problemi per i disordini di questi giorni.
Il problema è un altro: è possibile che il contagio raggiunga Riad, portando conseguenze ben più pesanti sugli equilibri petroliferi mondiali? Dopotutto, Libia, Algeria, Yemen, Bahrein e Iran rappresentano in totale circa il 10 per cento della produzione mondiale di petrolio, mentre l'Arabia Saudita il 13 per cento da sola. Lo scenario non è rassicurante. Da una parte ci sono caratteristiche sociali simili all'Egitto di Mubarak, una classe media in crisi, alta disoccupazione, scontento giovanile, inflazione crescente. Nelle ultime settimane si sono registrate proteste mai viste (200 insegnanti in sit in davanti al ministero dell'Educazione, alcuni capannelli di persone a Gedda contro la corruzione a livello governativo). Dall'altra c'è un trait d'union anche con i moti scoppiati nel confinante Bahrein: i due paesi hanno una maggioranza sciita non rappresentata dalle élite sunnite. In più, c'è la traballante salute di Re Abdullah, ottantasettenne, da mesi fuori del paese per un ciclo di cure negli Stati Uniti.
E' lecito aspettarsi uno smottamento sul trono saudita? Robert F. Worth del New York Times dice che i sauditi sono rimasti molto impressionati dalla velocità con cui è crollato il regime di Mubarak e dall'appoggio fornito alle piazze dalla presidenza Obama – appoggio che Riad disapprova: loro avrebbero preferito vedere il rais ancora al potere, e aveva chiesto un'uscita più soft. La stessa monarchia saudita si sentirebbe letteralmente accerchiata da paesi in rivolta: Bahrein, Giordania, Yemen sono tutti confinanti. Eppure, secondo gli analisti, è difficile immaginare che il contagio possa arrivare a Riad. Quella saudita è e rimane una monarchia assoluta (il Parlamento, la shura, ha poteri meramente consultivi), non esistono né partiti né sindacati riconosciuti. La famiglia al Saud ha tutti i contropoteri per assicurare la continuità di governo. Si dice che re Abdullah, di ritorno in patria dopo l'ennesima operazione, stia per annunciare un “dono reale” alla popolazione, che potrebbe significare sgravi fiscali o altri incentivi. Del resto, qui il rapporto fra debito e pil è fermo al 16 per cento, le previsioni di crescita per il 2011 sono del 4 per cento e il governo ha appena varato un piano di infrastrutture da 400 miliardi di dollari nel triennio 2011-2013. Il combinato disposto di scarsa domanda di democrazia e di (praticamente) infinite disponibilità di bilancio potrebbe mantenere in sella i reali al Saud ancora molto a lungo.
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