La primavera della libertà

Perché la Freedom Agenda seminata da Bush oggi dà i suoi frutti

Alessandro Giuli

La primavera di sangue e libertà che incendia il Maghreb e il medio oriente scorre davanti a noi mentre ci domandiamo, con Christian Rocca, “chi nel 2003, ma anche soltanto sei mesi fa, avrebbe detto che fra i paesi arabi e mediorientali oggi il solo Iraq si sarebbe rivelato stabile e passabilmente democratico”.

Leggi Contagio e infezione - Leggi La sinistra ha molto trattato con Gheddafi (la differenza sta nei risultati) - Leggi Quando all'Europa piaceva l'intesa Roma-Gheddafi dal blog 2+2 - Leggi Berlusconi mette in guardia sul dopo Gheddafi - Leggi tutti gli articoli del Foglio sulla crisi in Libia

    La primavera di sangue e libertà che incendia il Maghreb e il medio oriente scorre davanti a noi mentre ci domandiamo, con Christian Rocca, “chi nel 2003, ma anche soltanto sei mesi fa, avrebbe detto che fra i paesi arabi e mediorientali oggi il solo Iraq si sarebbe rivelato stabile e passabilmente democratico”. Rocca è da circa un anno corrispondente per il Sole 24 Ore da New York, dove prima ha lungamente lavorato per il Foglio. Oltre a essere uno di famiglia, è la persona giusta per decodificare genealogia, senso e prospettiva delle rivoluzioni antidispotiche del Mediterraneo: da fogliante è stato fra i primi divulgatori in Italia della dottrina ultra democratica dei neocon americani, precipitata nella così detta “Freedom Agenda” – sul tema ha pubblicato due libri: “Esportare l'America” (il Foglio, 2003), “Cambiare regime” (Einaudi, 2006). Oggi la realtà internazionale sembra convalidare il concretissimo idealismo che ha ispirato il doppio mandato di George W. Bush alla Casa Bianca. “E' la conferma di quanto ci dicemmo la sera dell'11 settembre 2001: nulla sarà più come prima”. Da quel momento – dice Rocca – sul fondale delle macerie di Ground Zero “prese corpo un approccio radicalmente nuovo nei rapporti storici verso gli stati implicati con il terrorismo islamista; verso i regimi con i quali in precedenza, per ragioni economico-energetiche, si era deciso di mantenere uno status quo cristallizzato”.

    Quell'approccio ha portato l'America
    e l'occidente a combattere due guerre, in Afghanistan e in Iraq, “e a inaugurare un processo di democratizzazione che non poteva maturare dall'oggi al domani, ma che ora sta dando frutti”. Se in Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Libia, Marocco e, non da ultimo, in Iran nulla è come prima, per Rocca “lo si deve al sostegno bushiano nei confronti di ogni dissidenza, all'aumento dei finanziamenti a favore delle opposizioni democratiche, a una scossa tellurica indotta che aveva già costretto Gheddafi a stracciare il programma nucleare libico, la Siria a ritirarsi dal Libano, i palestinesi a lacerarsi sul fondamentalismo di Hamas; e altri paesi ad azzardare esperimenti di tipo democratico, se pure non proprio in stile Westminster”. Una gloria postuma della dottrina pro democracy di Bush, “più forte dei suoi ripiegamenti di fine mandato dovuti alla tentazione di lasciare un'eredità non solo conflittuale”; ma sopra tutto più forte delle intenzioni ireniche del successore Barack Obama “che non ha promesso libertà ai popoli islamici oppressi ma è andato al Cairo per tendere la mano a Mubarak e ai teocrati iraniani che lo hanno ripagato col pugno di ferro contro l'Onda verde”. Obiezione: la primavera democratica preoccupa anzitutto Israele, avamposto demo-occidentale in medio oriente, e coloro che nei residui del panarabismo o dell'ibrido social-musulmano hanno visto un deterrente contro l'islamizzazione delle società. “Israele è nella trincea della prima linea – risponde Rocca – è chiaro che preferisca chiunque sia capace di garantire un ordine a basso tasso d'islamismo aggressivo”.

    Per dirla forte: non è che la Freedom Agenda
    lavora senza volerlo per i Fratelli musulmani, per Moqtada al Sadr che tiene al laccio il governo di Baghdad, o per Hezbollah che plaude alla piazza libica? “Il rischio c'è”, ammette Rocca, ma vale la pena correrlo se oggi “i cittadini iracheni possono finalmente scendere in strada non più contro un tiranno ma per reclamare pane e ricchezza”. E poi c'è l'argomento principe dell'idealismo realistico statunitense: “Come per le guerre contro Saddam e i talebani, l'esperienza ci dice che le situazioni precedenti allo strike erano peggiori e covavano il mostro jihadista”. Dopotutto “i governi eletti sono meno pericolosi di quelli dispotici che si sentono liberi di gasare i cittadini o mitragliarli con gli aeroplani, e figurarsi se hanno remore a finanziare i terroristi”. Per Rocca una stabilità antidemocratica non solo non è preferibile alle incognite degli attuali rivolgimenti, “è un'illusione”. Valeva per l'Egitto, dove “il popolo che ha rovesciato Mubarak odia gli Stati Uniti ma è stato vessato grazie alle armi e ai soldi americani destinati al regime”; vale per l'Iran, “dove il popolo non odia l'America, anche perché da Washington l'opposizione riceve sostegno materiale per smascherare l'imbroglio khomeinista”; varrà per l'Arabia Saudita, alleato sempre meno indiscusso, “dove origina la gran parte del fondamentalismo radicato in occidente”.

    Seconda obiezione: quanto la Freedom Agenda sia compatibile con gli interessi strategici dell'Europa, ove è stata percepita da taluni come la combinazione tra le pulsioni dell'America profonda, patriottica ed evangelica, e la costruzione teorica di un'élite liberal “assalita dalla realtà” e stanziata alla corte intellettuale di Bush. Controreplica: “Contesto nettamente l'idea della cricca o, come è stato scritto, della kabala annidata dentro e fuori la Casa Bianca per curare interessi oligarchici. Il padrino dell'ingerenza democratica si chiama Tony Blair, un protestante inglese convertito al cattolicesimo e rifondatore del Labour britannico. Basta rileggersi il suo discorso a Chicago del 1999 per ricordare come fosse lui a convincere Bill Clinton che l'Iraq saddamita non era differente dalla Serbia di Milosevic”. Profezia, anzi agenda di libertà “nutrita, dopo l'11 settembre, dal consenso del Congresso americano, di John Kerry prima che sfidasse Bush, del New York Times, di intellettuali europei come André Glucksmann, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik, Giuliano Ferrara, Magdi Allam, e come il mio direttore Gianni Riotta. E poi bisogna finirla col falso mito dell'Europa riluttante: tolte Francia e Germania, dall'Italia berlusconiana alla Spagna di Aznar, con al seguito il Portogallo di Barroso, la Polonia e i paesi dell'est, quella Freedom Agenda riabbracciata da Obama ha avuto e dovrebbe avere anche oggi un largo seguito europeo”. Per fare cosa, nell'immediato? “La leva economica sarà decisiva per vigilare sulla transizione egiziana. E in Libia, dove il condizionamento degli stati occidentali (Italia a parte) è meno forte, si potrebbe imporre una no fly zone con l'obiettivo di salvare le vite dei manifestanti”. Da ultimo: nella Freedom Agenda si fatica a intravedere il dossier cinese, lo yuan è assai più temibile di Gheddafi. “Sì, e poi a Pechino c'è sempre gran parte del debito pubblico americano”.

    Leggi Contagio e infezione - Leggi La sinistra ha molto trattato con Gheddafi (la differenza sta nei risultati) - Leggi Quando all'Europa piaceva l'intesa Roma-Gheddafi dal blog 2+2 - Leggi Berlusconi mette in guardia sul dopo Gheddafi - Leggi tutti gli articoli del Foglio sulla crisi in Libia