Come si comporta un presidente
“Non sappiamo che esito avrà la primavera di rivolte in medio oriente, forse non siamo in grado nemmeno di condizionarle in modo decisivo, ma le forze della civilizzazione non sono certo sprovviste di risorse”. Lo dice al Foglio Bill Kristol, il direttore del magazine conservatore americano Weekly Standard.
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“Non sappiamo che esito avrà la primavera di rivolte in medio oriente, forse non siamo in grado nemmeno di condizionarle in modo decisivo, ma le forze della civilizzazione non sono certo sprovviste di risorse”. Lo dice al Foglio Bill Kristol, il direttore del magazine conservatore americano Weekly Standard. Kristol, da sempre sulla linea più ortodossa della dottrina repubblicana, è stato un convinto difensore della promozione della democrazia in medio oriente. Si dice “rincuorato, seppur con cautela, dall'ondata rivoluzionaria” che ha avuto inizio in Tunisia e ha poi sconfinato in Egitto, in Yemen e in Libia. “Molti di noi dicevano da tempo che era necessario scardinare il ciclo delle dittature e dell'estremismo, incluso anche quello di matrice islamica – osserva – Ora potrebbe essere accaduto quello che volevamo, anche se niente garantisce che tutto funzionerà a dovere. Detto questo, i fatti degli ultimi giorni danno a noi, e ai popoli del medio oriente, una nuova chance per rimettere a posto le cose e dare forma a un futuro migliore”.
Nella risposta della Casa Bianca agli eventi della Tunisia, dell'Egitto e ora della Libia, Kristol evidenzia, per ora, una carenza preoccupante: “Manca il senso delle possibilità che si sono aperte, la determinazione a fare del nostro meglio per concretizzarle, la consapevolezza che questo può essere un punto di svolta importante per la storia del mondo”. Il direttore del Weekly Standard non capisce come sia possibile che le rivolte “non smuovano l'occidente dall'approccio del business as usual. Bisogna fare qualcosa di più dei discorsi, mettere in campo sforzi, nascosti ed espliciti, diretti e indiretti, per aiutare i più liberali. Bisogna prendere in considerazione l'uso della forza quando la forza viene usata per uccidere civili innocenti. Bisogna coinvolgere il governo americano, metterlo in azione su tutti i piani possibili con gli alleati e le organizzazioni internazionali, concentrandosi sulle sfide del presente”.
“Il vecchio ordine della regione era destinato soltanto a generare un pericolo maggiore per tutti noi”, sostiene Kristol, che viene dall'esperienza di numerosi think tank, tra cui il Project for the New American Century, noto per la lettera inviata nel 1998 all'allora presidente Clinton, nella quale si chiedeva una posizione più dura nei confronti dell'Iraq. Le parole del direttore del Weekly Standard riprendono molti elementi della dottrina per la politica estera di George W. Bush, in particolare della sua Freedom Agenda. Nel discorso inaugurale del suo secondo mandato, Bush aveva definito così la sua visione: “La politica degli Stati Uniti è quella di sostenere lo sviluppo dei movimenti e delle istituzioni democratiche in ogni nazione e in ogni cultura, per raggiungere l'obiettivo dell'eliminazione della tirannia dal nostro mondo”. Per questo, oltre alla campagna in Iraq, l'Amministrazione Bush ha incoraggiato gli sforzi per la liberalizzazione di paesi come l'Arabia Saudita e l'Egitto, ha sostenuto il ruolo dei civili nel governo pachistano e le elezioni nei territori palestinesi, anche quando si è capito che le avrebbe vinte Hamas.
Sul fatto che gli egiziani e i tunisini si siano sbarazzati da soli dei loro dittatori, secondo Kristol, “pesa certamente quello che Bush ha fatto e detto in medio oriente. Non si può dire che sia una conseguenza inevitabile della sua politica estera, che però è stata utile. Spero che l'operato del presidente Obama possa essere ancora più incisivo”. Kristol avverte che questa è un'occasione decisiva per il capo della Casa Bianca, “anche se non è proprio quella che aspettava o quella che avrebbe desiderato”. Oggi, Obama non può permettersi di restare “passivo di fronte agli eventi o di essere paralizzato dai dubbi. E' un momento storico, non può lasciarselo sfuggire. Non soltanto perché quello che sta succedendo nel mondo arabo può rafforzare alcuni interessi degli Stati Uniti, ma perché noi crediamo che i princìpi che professiamo siano universali, non realizzabili sempre e ovunque, ma da favorire quando e dove è possibile”.
Non è detto che l'esito di questo sforzo dia i risultati che l'occidente si aspetta: “E' possibile, persino probabile, che la primavera araba del 2011 fallisca, così come è già successo con altre primavere, che non si sono mai concretamente realizzate – dice Kristol – ma gli Stati Uniti e l'Europa devono aiutarla, stando dalla parte di chi si oppone alla tirannia, anche quando la vittoria sembra improbabile. Certo, è molto difficile dire cosa si debba fare in ognuna delle nazioni coinvolte: le scelte dipendono da valutazioni complesse dei problemi che si incontrano sul campo. Se però molti analisti e commentatori dedicassero più tempo a capire cosa può essere fatto piuttosto che a escogitare analogie brillanti che sembrano spiegarci il destino degli eventi, illustrando l'inevitabile fallimento dei nostri sforzi, forse capiremmo che possiamo influire su questi movimenti più di quanto non pensiamo ancora”.
L'occidente, sostiene Kristol, ha tutto da guadagnare: “In fondo, non è forse possibile che l'arrivo di nuovi paesi nel mondo della libertà finisca per ravvivare il nostro amore e la nostra comprensione della libertà?”.
(traduzione di Marco Pedersini)
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