Gentiluomini in rivolta

Salvatore Merlo

La rivolta dei gentiluomini dentro Futuro e libertà si consuma in silenzio e con sofferenza, e non ha niente a che fare con il mercimonio delle poltrone. Nessun proclama, nessuna pubblica abiura, poche e meste recriminazioni da cuori infranti. “Ho l'impressione di essere stato scaricato come fossi un sacchetto di monnezza abbandonato sul ciglio della strada”, ha detto Pasquale Viespoli, l'ex capogruppo di Fli al Senato, a un collega.

    La rivolta dei gentiluomini dentro Futuro e libertà si consuma in silenzio e con sofferenza, e non ha niente a che fare con il mercimonio delle poltrone. Nessun proclama, nessuna pubblica abiura, poche e meste recriminazioni da cuori infranti. “Ho l'impressione di essere stato scaricato come fossi un sacchetto di monnezza abbandonato sul ciglio della strada”, ha detto Pasquale Viespoli, l'ex capogruppo di Fli al Senato, a un collega.

    Gianfranco Fini non ha fatto alcun tentativo di recuperare i suoi uomini, che lo abbandonano perché “sì, siamo critici nei confronti di Berlusconi, ma non possiamo rimanere inerti ad ascoltare Italo Bocchino che parla come fosse Travaglio. Costruire un centrodestra alternativo non può passare per l'acquisizione tout court del vocabolario della sinistra”. Il disagio è fortissimo e va distinto dalla fuoriuscita scomposta dei Luca Barbareschi (di cui anche Ignazio La Russa ha detto pochi giorni fa: “Il mio più grande errore è stato avvicinarlo alla politica”). Le biografie di Viespoli, di Maurizio Saia, di Francesco Pontone, di Silvano Moffa sono un'altra storia. “Moffa lo conosco da quando eravamo ragazzi, io comunista lui missino rautiano. ‘Silvanetto' è un galantuomo. Ci resto male a leggere le accuse ingenerose che gli scagliano addosso”, dice al Foglio Ugo Sposetti, classe 1947, tesoriere dei Ds fino al loro scioglimento.

    Soffre Adolfo Urso (ma resta in Fli) e soffre persino Andrea Ronchi, che per Fini ha sempre avuto un'ammirazione personale ai limiti dell'adulazione (e al quale Fini ha rivolto queste parole: “Credi di essere diventato ministro in virtù dello spirito santo?”). Chissà se il passo indietro di Benedetto Della Vedova, che ha offerto a Urso la presidenza del gruppo della Camera, basterà per arginare l'emorragia. Forse no. Ma sono decisioni sofferte. I galantuomini lasciano in silenzio. Anche Alessandro Campi, che della destra nuova di Fini è stato ideologo e regista, se n'è andato in punta di piedi: si è dimesso dalla segreteria nazionale di Fli, e da dicembre non è più a FareFuturo. Nessuna conferenza stampa. Una telefonata con Fini.

    Futuro e libertà non si sta sgretolando in seguito a una guerra correntizia e di apparato. L'organigramma contestato, nel quale la guida del partito è affidata a Bocchino e quella del gruppo alla Camera a Della Vedova, è un aspetto accessorio del problema. Il dissidio è politico. Bocchino è diventato la maschera pubblica e operativa di Fini, ma non è riuscito a declinare l'antiberlusconismo in una chiave che fosse potabile per la destra e per uomini che nella destra, come i Viespoli e i Pontone, hanno militato per quarant'anni. Politici che per tutta la vita hanno combattuto contro quel linguaggio giacobino, e sinistreggiante, adottato oggi da Fabio Granata. “Se Fini si fosse dimesso dalla presidenza della Camera, lui che è il leader riconosciuto, e sa parlare da leader, sarebbe anche potuto riuscire a tenere tutti insieme”, spiega Campi. Ma la chiave legalitaria che aveva caratterizzato il finismo è tracimata nel giustizialismo; dalla politica si è scivolati verso l'insulto e la contrapposizione personale. Pagando, così, un prezzo altissimo rispetto agli antiberlusconiani di professione, che possono vantare vent'anni di carriera coerente, mentre il personale politico di Fli ha militato al fianco del Cavaliere per oltre quindici anni.

    Come potevano resistere i Pontone, i Moffa, i Viespoli? Ogni tanto, anche nello sguardo dell'ottantenne Donato Lamorte, uomo di fiducia di Almirante e poi di Fini, sembra di cogliere un velo sardonico quando osserva alcuni colleghi di partito. “Certo che io e Granata siamo un po' diversi”. Andrea Augello, che in Fli non è mai entrato, ma che dentro il Pdl è stato un esemplare pregiato della squadra di Fini prima che il cofondatore fosse espulso, dice che “era solo una questione di tempo. C'erano delle ambiguità di fondo. Sin dall'inizio”.
    Sorprende i protagonisti, e gli osservatori, la freddezza inoperosa con la quale Fini assiste alle numerose defezioni. Il presidente della Camera ha opposto un atteggiamento persino respingente nei confronti di uomini che pure lo avevano seguito nella scissione del Pdl, taluni rinunciando anche a posizioni di governo. “Sembra che non gli importi”, dice Moffa.

    Al Foglio viene riferita una frase oscura di Fini: “Fli è un partito a tempo”. Come dire: “Non è il mio investimento duraturo. Ciò che mi interessa non sono né il partito né i numeri parlamentari”. D'altra parte l'unica dichiarazione che gli si attribuisce nei confronti dei suoi uomini è “vadano dove gli pare”, oppure: le defezioni sono effetti “del potere economico del premier”. Il tentativo più serio di trattenere i deputati, alla Camera, lo hanno fatto Della Vedova (offrendo il proprio posto a Urso) e Urso stesso (incontrando più volte l'affranto Ronchi). Venerdì si riunisce il gruppo a Montecitorio, Della Vedova formalizzerà il passo indietro. Se, come annunciato da Granata, dovessero rieleggere Della Vedova è quasi certo che Urso lascerebbe Fli.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.