La spersonalizzazione ospedaliera della morte, estranea a noi
Si muore in ospedale. Almeno per l'occidente, almeno per l'Italia la morte è sempre più frequentemente una morte ospedaliera, tanto che non appare più così lontano il giorno in cui la morte rappresenterà un evento, l'ultimo della vita, che si verificherà pressoché esclusivamente in ospedale. Non ci sono statistiche, dati ufficiali di sorta – forse per pudore. Ma si tratta di osservazione comune.
Si muore in ospedale. Almeno per l'occidente, almeno per l'Italia la morte è sempre più frequentemente una morte ospedaliera, tanto che non appare più così lontano il giorno in cui la morte rappresenterà un evento, l'ultimo della vita, che si verificherà pressoché esclusivamente in ospedale. Non ci sono statistiche, dati ufficiali di sorta – forse per pudore. Ma si tratta di osservazione comune.
Morire in ospedale, morire sempre più frequentemente in ospedale, non cambia soltanto la morte, il modo di morire. Cambia anche la vita, perché “il misurarsi” in vita con la morte, la propria e quella dei familiari e degli amici, delle persone che ci sono care, è già cambiato profondamente e va incontro a cambiamenti ulteriori. La morte si è allontanata da noi, è diventata più estranea e più difficilmente esprimibile nel nostro linguaggio.
Si può parlare di un evento che si fronteggia, non di un evento che sempre meno ci è dato di accostare personalmente perché sempre più posto nelle mani e nelle competenze di altri. La morte sta diventando indicibile perché la sua ospedalizzazione ce la sottrae, la sottrae a famiglie che non sanno o non possono più accompagnarla perché piccole, frammentate, monogenerazionali, lontane le une dalle altre. Ci sono processi che non possono essere fermati, perché legati ad altri e ad altri ancora, in una catena che si rinsalda passaggio per passaggio, anello dopo anello: la morte in ospedale è uno di questi.
Attualmente in Italia quasi sei morti su dieci sono ultraottantenni, proporzione destinata a crescere ancora. E questo mentre le famiglie con un anziano vanno sparendo e i single, tra i quali più della metà non sono single in senso classico, bensì anziani vedovi o divorziati, continuano ad aumentare. Non c'è rivoluzione culturale che possa superare certi dati oggettivi, nel momento stesso in cui impera la sanitarizzazione della società: quell'insieme di processi che traducono gli atteggiamenti e gli stili di vita di una comunità in regole, bisogni e consumi medico-sanitari. Così c'è una inevitabilità nella morte in ospedale che non può essere fermata, ma che si può, e si deve, pensare di poter “curare”, nel senso di attenuare nel suo impatto emotivo, ovvero umanizzare. La legge sul fine vita e il testamento biologico sono, se ci si pensa, nient'altro che, per un verso, le manifestazioni estreme di questa tendenza, e per l'altro, appunto, il bisogno di imporre a essa un qualche limite non valicabile.
Sono gli aspetti più umani, proprio quelli emotivi, della morte a essere ignorati e travolti, sconvolti e banalizzati in ospedale. Perché il fine vita in ospedale è l'appendice oscura e irrisolta dell'attività ospedaliera. La morte avviene in ospedale, ma non fa parte della sua attività e dunque dei suoi compiti. Nel momento stesso in cui si compie, la morte ospedaliera esce dall'ospedale, dalle sue funzioni, dalla sua visione. Viene espulsa con chirurgica rapidità dall'ospedale, il morto subito confinato in lontane, gelide, spettrali, disumane stanze obitoriali dove l'accoglimento e il raccoglimento, l'elaborazione e la riconciliazione, la preghiera e il pianto da parte di tutti coloro che vorrebbero lasciarsi andare a qualcuna di queste umane necessità di fronte alla morte e al morto è preclusa, bloccata, di fatto negata.
La morte lascia così un vuoto e un rimpianto, sempre, che contribuiscono ad allontanarla dal cuore degli uomini, dalla loro esperienza come dal loro linguaggio. Non si può, mentre si discute di fine vita, dimenticare che la dignità della morte riguarda non soltanto chi muore, ma tutti quelli che da una morte sono toccati e che debbono poterla a loro volta toccare, umanamente toccare, sentimentalmente toccare, liberamente toccare: come si faceva nelle proprie case una volta.
Il Foglio sportivo - in corpore sano