Ecco gli interlocutori e gli ambiti su cui investire per un Piano Marshall che cominci subito
Chi oggi denuncia il pericolo che le rivoluzioni popolari arabe finiscano con una vittoria del fondamentalismo islamico non sa che dal 1978 a oggi tutti i regimi arabi autoritari, così come quelli islamici d'Asia, si sono retti grazie a un patto implicito col peggiore fondamentalismo, distruggendo le Costituzioni ereditate dall'Inghilterra e dalla Francia, trasformandole in Costituzioni islamiche. Questa islamizzazione non è stata casuale, ma frutto di una pianificazione dell'Arabia Saudita applicata in Pakistan, Sudan, Yemen, Egitto, negli stati musulmani della Nigeria e altrove.
Chi oggi denuncia il pericolo che le rivoluzioni popolari arabe finiscano con una vittoria del fondamentalismo islamico non sa che dal 1978 a oggi tutti i regimi arabi autoritari, così come quelli islamici d'Asia, si sono retti grazie a un patto implicito col peggiore fondamentalismo, distruggendo le Costituzioni ereditate dall'Inghilterra e dalla Francia, trasformandole in Costituzioni islamiche. Questa islamizzazione non è stata casuale, ma frutto di una pianificazione dell'Arabia Saudita applicata in Pakistan, Sudan, Yemen, Egitto, negli stati musulmani della Nigeria e altrove.
La realtà è ben diversa da quella descritta dagli allarmisti: nei paesi arabi è emerso un forte movimento politico in cui i fondamentalisti sono presenti, ma in cui – al momento – non sono affatto egemoni, perché la sua spina dorsale è composta da milioni di donne e di giovani “senza partito” che si sono laureati, che sono disoccupati, che conoscono l'occidente e la sua cultura, che ne sono attratti e che sono quindi “contendibili” al fondamentalismo. Questa è la partita che va giocata: conquistare politicamente, offrire una prospettiva, una strada percorribile a questa inedita “piazza araba” che rifiuta l'esistente, ma non sa ancora cosa deve costruire. L'Europa e gli Stati Uniti possono offrire un'alternativa a quella che offrono i Fratelli musulmani. Naguib Sawiris, tycoon delle comunicazioni, egiziano copto, oculato fiancheggiatore della rivolta di piazza Tahrir, ha chiesto un Piano Marshall per l'Egitto. Indicazione saggia e calzante, perché è tutta politica, per nulla assistenziale. I 17 miliardi di dollari che gli Stati Uniti riversarono tra il 1947 e il 1951 in Europa non erano aiuti a perdere, carità, ma erano finalizzati a integrare l'economia europea a quella americana, con espliciti risvolti politici: non a caso, l'Urss di Stalin, così come il Pci e tutti i partiti comunisti europei, boicottarono il Piano. Lo stesso schema, adeguato ai tempi, può oggi essere riproposto ai paesi arabi con uno scopo simile: sconfiggere politicamente il fondamentalismo.
Si obietterà; non abbiamo gli interlocutori. Non è vero: in Egitto abbiamo Naguib Sawiris, Ayman Nour, il Wafd, Kifaya; in Tunisia abbiamo imprenditori come Tarak Ben Ammar e molti dirigenti politici; abbiamo re Abdullah II di Giordania che da dieci anni chiede esattamente questo; abbiamo re Mohammed VI del Marocco; abbiamo il principe Talal bin Abdulaziz in Arabia Saudita con suo figlio al Waleed e molti altri interlocutori. Si dirà: non c'è tessuto economico su cui investire. Non è vero: esistono già decine di grandi progetti per “l'oro bianco”, l'acqua, che possono creare agricoltura, turismo, tessuto produttivo. Vi sono immensi spazi per lo sviluppo di un turismo che già produce il 10 per cento del pil egiziano e che è uno straordinario antidoto alla sharia, perché vive su uno schema di vita che ne nega i fondamenti, a partire dalla libertà del corpo delle donne. Basta iniziare, con una coalizione di volonterosi, tra i paesi che ci stanno, Italia in testa, senza più perdere tempo con quelle Unioni per il Mediterraneo che si sono dimostrate poco meno che grottesche.
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