L'ovale in mutande
La vulgata vuole che il rugby sia una rissa legalizzata, chiamata sport per cortesia, seguita da una nicchia di esterofili o da burini che si entusiasmano per lo spettacolo della forza bruta. Una disciplina rozza, che, secondo la lezione di Oscar Wilde, ha tutt'al più il pregio di mettere in condizione di non nuocere una trentina di zoticoni, con la lucidità annebbiata dagli steroidi, che per un paio d'ore saranno impegnati in un campo da calcio con delle porte un po' più esotiche. Il giocatore di rugby, ne consegue, è un ammasso di muscoli non particolarmente brillante.
La vulgata vuole che il rugby sia una rissa legalizzata, chiamata sport per cortesia, seguita da una nicchia di esterofili o da burini che si entusiasmano per lo spettacolo della forza bruta. Una disciplina rozza, che, secondo la lezione di Oscar Wilde, ha tutt'al più il pregio di mettere in condizione di non nuocere una trentina di zoticoni, con la lucidità annebbiata dagli steroidi, che per un paio d'ore saranno impegnati in un campo da calcio con delle porte un po' più esotiche. Il giocatore di rugby, ne consegue, è un ammasso di muscoli non particolarmente brillante, a cui si accompagnano maschietti in cerca di un surplus di virilità o di uno sport in cui una stazza fisica generosa possa finalmente essere considerata un pregio.
Non che il mondo rugbistico italiano si sia mai impegnato eccessivamente a smentire questa fama: quando, dalla seconda metà del decennio scorso, la palla ovale è iniziata a essere un fenomeno di tendenza, si è accettato che l'emancipazione dovesse per forza passare attraverso l'esibizione di pettorali squadrati e addominali definiti. La materia prima non mancava, c'era la storia dei fratelli Bergamasco che si faceva tanto leggere e fotografare, non si capisce perché non accettare le regole del gioco. Del resto, che male c'è se, inserendosi tra un Cristiano Ronaldo e un David Beckham in mutande, anche gli atleti della Nazionale di rugby si guadagnano il loro bel muro su cui esibire sguardi maliziosi, fotografati nell'intimità dello spogliatoio? “I fisici scultorei scolpiti con dedizione, disciplina e volontà li rendono infatti perfetti modelli di una nuova idea di bellezza: sana, pulita, maschile”, spiegavano da Dolce & Gabbana, per giustificare la scelta del “fisico da combattenti” di cinque giocatori della Nazionale per “rappresentare l'uomo contemporaneo” e la delicatissima linea di intimo “Skin sensation”.
Le innovazioni dei tessuti elasticizzati, che ci hanno donato magliette sempre più anatomiche per busti sempre più strizzati, danno il loro contributo. Sono asciutte, tecniche, ma forse era il caso di trovare una via di mezzo: se una decina di anni fa la Nazionale neozelandese, grazie alla proverbiale tenuta “all black”, poteva essere scambiata per una squadra di arbitri, ora l'aspetto è scivolato pericolosamente verso il body building. “Le aderenze delle magliette da rugby moderne aiutano anche a dare una definizione di questi fisici che sono veramente incredibili”, nota Vittorio Munari, il telecronista dal timbro tagliente che negli anni si è imposto come sinonimo televisivo del rugby. Commentando un'azione del nazionale francese Sébastien Chabal – detto “l'Orco” per via del barbone e dei lunghi capelli corvini – Munari ha osservato divertito: “Quando l'Orco finisce di giocare ha una carriera di bagnino pronta. Con una maglietta a righine fatta bene, può andare avanti almeno altri quindici anni a mietere vittime”.
Vaglielo a spiegare, poi, agli amici che i muscoli certo aiutano, ma nell'economia del gioco non sono tutto. Dici che è uno sport mentale, in cui serve una strategia fluida e ben orchestrata, perché se provi a fare da solo, correndo a testa bassa con la palla in mano – quello che nelle giovanili si chiamava il “rugby ignoranza” –, finisci giusto per scontrarti con l'avversario, senza aver guadagnato niente. Loro sorridono, annuiscono gentilmente e ti danno ragione per non darti un dispiacere, nella speranza che tu non voglia proseguire oltre sull'argomento. Non tutti i giocatori sono contenti di vedere i compagni esibiti su riviste e calendari, coperti giusto da ombre strategiche o dalle generose rotondità di una palla da rugby. Il pilone Martin Castrogiovanni, interrogato sugli scatti erotici dei colleghi francesi, non ha nascosto le sue perplessità: “Ho notato che di anno in anno peggiorano. Sapere che è il più comprato dai gay… insomma, non che abbia qualcosa contro, ognuno è libero di fare quello che vuole. Ma ci sono altri modi di far beneficenza, no?”. Non che l'appassionato disprezzi i frutti dell'improvvisa notorietà di una disciplina di cui per anni ha dovuto sperare di trovare qualche cenno nella zona “altri sport” della Gazzetta. Per quel mondo ruspante e trasandato, in cui si trovava tanto bene il protagonista sciroccato di “Asini”, interpretato da Claudio Bisio, è stato strano ritrovarsi di colpo sulle riviste. La crescita di quello che, con orgoglio militante, parla di sé come “il movimento rugbistico” ha dei vantaggi indiscutibili: si è sempre meno costretti a giocare su campi che sembrano risaie, gli spogliatoi non assomigliano più a vecchie rimesse con docce precarie e se si esce a cena con qualcuno capita sempre più raramente di trovare quello che confonde il rugby con il football americano. E' bello vedere che ormai la Nazionale riesca a farsi rispettare contro ogni avversario, che la mischia italiana (non più tardi dell'anno scorso) abbia messo in seria difficoltà quella degli All Blacks neozelandesi e che ogni tanto si riesca a non vincere il Cucchiaio di legno – il premio infamante concesso agli ultimi classificati del Sei nazioni.
Ma ci dev'essere qualcosa che non va se per buona parte del movimento, a parte la vittoria con la Scozia del 2007 – il primo successo fuori casa nel torneo –, il grande ricordo di cui andare fieri risale al 1997. Era fine marzo e a Grenoble la Nazionale francese, fresca di grande slam in quello che allora era il Cinque nazioni (quattro partite giocate, quattro vittorie della Francia), veniva sconfitta 40 a 32 dall'Italia. Tre anni dopo, grazie ai sacrifici e ai risultati della squadra italiana, che era stata in grado di battere Irlanda, Scozia e Galles, il torneo sarebbe diventato Sei nazioni, con una Nazionale dalla divisa azzurra in campo. La prima partita, allo stadio Flaminio di Roma, aveva visto l'Italia battere la Scozia, che aveva vinto il Cinque nazioni l'anno precedente. “Quello era un gruppo forte, unito, irripetibile, non come la Nazionale di adesso, in cui ognuno gioca per sé”, si sente dire dai vecchi del “movimento”, quelli che sì, apprezzano i pregi di essere uno sport in crescita (forse non quanto dice la Federazione), ma sotto sotto sentono quel sentimento strano che, danzando sull'orlo del luogo comune, li fa sospettare che si stesse meglio prima, quando tutto era più pane e salame. Chi è sufficientemente vecchio da ricordare quando in touche non si poteva saltare – l'“ascensore”, il gesto atletico che rende spettacolare la rimessa laterale, era vietato fino a metà degli anni Ottanta – si trova a disagio negli eccessi e negli squilibri dell'adolescenza del rugby italiano. L'improvvisa scoperta del corpo, esibito in tutte le salse, può anche essere tollerata, se la si inquadra come scotto da pagare affinché si parli sempre di più di rugby. Del resto, come testimonia il sito internet britannico “rugby for girls”, l'ostentazione del pettorale non è una prerogativa mediterranea. La retorica tronfia dei valori del rugby, della correttezza e del fair play, invece, è fastidiosamente più quotidiana e a buon mercato. La rivalità con il calcio, passaggio obbligato per gli sport in cerca di notorietà (e diritti televisivi), è stata calcata senza accorgersi di avere superato da tempo i confini della caricatura. Difficile pensare che uno sport, per avere una sua dignità, abbia bisogno di tifosi che urlano “sei un calciatore!” all'avversario che indugia in rimostranze troppo teatrali, come spesso si sente anche nei campi di provincia. “In Italia il rugby è una moda, che però, a differenza delle mode passeggere, ormai si trascina da almeno quattro anni – dice al Foglio Duccio Fumero, una sorta di pioniere dei blog italiani sulla palla ovale – Come ogni fenomeno, però, il rugby rischia di stravolgere il proprio significato sportivo, diventando un cliché. Il rugby come opposto al calcio è, appunto, uno di questi cliché. Tra alcuni rugbisti c'è una sorta di senso d'inferiorità nei confronti del pallone tondo che si trasforma in sfoggio di superiorità morale e di valori. Ma sono convinto che voler erigere un muro tra il rugby e gli altri sport, così come la tendenza dei rugbisti di vecchia data a estromettere i neofiti perché ‘voi non c'eravate ai tempi del rugby e salame', sia ciò che di peggio si possa fare per la palla ovale nel nostro paese”.
La gioiosa estetica virile del terzo tempo – il momento in cui, finita la partita, le due squadre si rilassano a colpi di boccali di birra –, imposta da un'etichetta che si è cristallizzata in un galateo rigido, da non trasgredire, è sbiadita in una facile variazione sul tema “volemose bene”. Si beve e si scambiano quattro chiacchiere con l'avversario perché è bello e giusto, non perché è stato caldamente consigliato dalle norme guida federali sull'etica dello sport. L'insofferenza nei confronti degli eccessi nelle critiche agli arbitri, che sono il sale della cultura calcistica da bar, ha portato invece a una venerazione non richiesta nei confronti delle regole. Può capitare persino di vedere un allenatore lodare l'arbitro perché ha espulso uno dei suoi giocatori che aveva trasgredito il regolamento. Chi scrive l'ha visto personalmente, durante uno scontro fra due giovanili, lo scorso anno. Certo, nel rugby la lealtà e la correttezza sono tenute in alta considerazione, ma l'espressione “nei limiti del regolamento” è sempre stata usata più che altro con un'accezione prudenziale, ai limiti del paraculo, tanto quanto la premessa “con il dovuto rispetto” nei film americani. L'amore per il rispetto e la necessità di rendere il rugby accettabile anche ai palati più delicati non può certo portare a travisare una disciplina in cui la forza, per quanto mezzo e non fine, è e dev'essere presente in abbondanza. Ci vuole buonsenso e anche un po' di ironia, come quella che qualche anno fa portava Luca Tramontin, ora telecronista di Eurosport e della svizzera Rsi, a commentare una rissa tra due squadre con una rilassata cadenza bellunese: “Evidentemente le due mischie hanno differenti pareri sulla letteratura”.
“Certo, il rugby italiano sta facendo strada – dice al Foglio Tramontin – ma sta frequentando troppo la sala giochi e poco la Clubhouse. Sceglie un marketing che scimmiotta il calcio, con grandi eventi che badano troppo alla spettacolarizzazione. Non possiamo lamentarci di non essere riusciti a costruire una cultura rugbistica nel nostro paese se poi facciamo come l'anno scorso, quando a Milano abbiamo cucinato lasagne agli imbarazzatissimi All Blacks. Sia chiaro, anch'io sono per la tendenza alla massificazione, ma vorrei che fosse un'evoluzione più identitaria”.
L'Italia ha iniziato il suo dodicesimo Sei nazioni due settimane fa, giocando in casa contro l'Irlanda. E nel giro di pochi mesi, a settembre, volerà in Nuova Zelanda per la Coppa del mondo. L'esordio nel torneo ha visto uno stadio “tutto esaurito” con largo anticipo, numeri inaspettati (ottocentomila telespettatori, per il rugby è una novità) e l'illusione di una vittoria italiana. Sarà anche per colpa della preparazione accidentata dell'Irlanda, che l'ha costretta a presentarsi a Roma senza nove titolari, ma la partita è stata raddrizzata a favore delle maglie verdi solo grazie agli ultimi scampoli di talento di due giocatori che hanno fatto la storia del rugby nell'ultimo decennio – Brian O'Driscoll e Ronald O'Gara, uno che con la Nazionale ha segnato quasi mille punti in carriera. L'Italia ha creduto di essersi guadagnata un posto tra le grandi, ma l'illusione è durata giusto una settimana. Tempo di trovarsi di fronte l'Inghilterra, che con un gioco agile ha umiliato l'Italia e la sua versione mal eseguita di un rugby scolastico che punta tutto sulla forza della mischia e si dimentica dei placcaggi (diciannove sbagliati, contro i quattro errori degli avversari). Come ha scritto Stephen Jones sul Sunday Times, “l'Italia ha provato a giocare come la Nuova Zelanda e vederli lottare in modo così orrendo ha rappresentato una brutta giornata per lo stesso torneo del Sei nazioni”. Mentre l'ala inglese Chris Ashton segnava quattro mete – talmente indisturbato da potersi mettere in posa mentre si tuffava in area di meta – molti commentatori osservavano che se si vogliono maggiori risultati forse è il caso che l'Italia rinunci alla tentazione di difendere a oltranza e prenda in considerazione l'ipotesi di attaccare. La risposta potrebbe vedersi già settimana prossima contro il Galles, senza dovere per forza riservare tutte le speranze alla sfida con la Scozia – la squadra a cui ogni anno finiamo per contendere il “Cucchiaio di legno”.
Per chi ha l'occhio giusto, però, i sintomi di un cambio di mentalità del “movimento”, seduto per anni sul privilegio di essere un fenomeno di tendenza, iniziano a essere credibili: finalmente la Nazionale italiana ha un giocatore in grado di calciare come si conviene (Mirco Bergamasco) ed effettivamente nella prima partita il gioco dell'Italia ha lasciato all'allenatore irlandese Declan Kidney, abituato a distacchi molto maggiori, solo la carta dell'arbitraggio scorretto, contro il quale Kidney intende assolutamente “prendere provvedimenti”.
La Nazionale riflette le nuove conquiste del rugby italiano: quest'anno due squadre, la Benetton Treviso e l'Aironi Rugby di Viadana, sono state accettate nella coppa dei Campioni del rugby, la Celtic League. La prima ha vinto sei partite su undici, l'altra neanche una, ma questa manciata di incontri è comunque una svolta per i giocatori italiani, che fino all'anno scorso erano destinati a scegliere tra il solito giro del campionato nazionale o l'espatrio. Per loro, giocare nella Celtic League, con risultati che non raccontano le superiorità schiaccianti di qualche anno fa, significa avere la possibilità di battersi con i migliori in Europa, lasciandosi finalmente alle spalle il complesso da provincia dell'impero. “L'ingresso nella Celtic League non potrà che contribuire alla crescita del rugby in Italia, è un'avventura che è partita solo da pochi mesi e ha già dato risultati – ha commentato Martin Castrogiovanni, che ha appena rinnovato il suo contratto con gli inglesi de Leicester Tigers – Treviso è partita molto bene, gli Aironi hanno fatto un po' più fatica, ma è indubbio che giocare ogni weekend ad alti livelli dia grossi benefici”.
La Nazionale italiana deve fare attenzione a non inciampare su alcune decisioni controverse, come la telenovela sull'allenatore (se ne va, c'è già il sostituto pronto, anzi no) o quella sui diritti televisivi, vicenda in cui la Federazione italiana rugby, inebriata dalla possibilità di poter replicare i meccanismi che arricchiscono il calcio, ha sposato l'avventura disastrosa di Dahlia, la tv del porno e dello sport, miseramente fallita nelle scorse settimane. Ci sarebbe anche il desiderio di un impianto all'altezza del circuito del Sei nazioni, ma le parole dette la scorsa settimana dal presidente del Coni, Gianni Petrucci, hanno fatto capire che siamo molto distanti da una ricaduta pratica soddisfacente – come altro si dovrebbero interpretare dichiarazioni elusive come “poi se un giorno dovesse servire l'Olimpico con i suoi 75-80 mila, noi siamo a disposizione”? Per la verità ha detto anche che con “quel venti per cento in più di volontà” si può vincere, o almeno, ha aggiunto, “io ci credo”. Era una frase di circostanza, da torneo dell'oratorio, ma forse ha ragione, si ripetono gli appassionati, come se fosse un mantra propiziatorio, questa volta ha ragione davvero, forse è la volta buona.
Il Foglio sportivo - in corpore sano