Roma senza profeta

Beppe Di Corrado

Roma non è dei romani. Claudio Ranieri che lascia Trigoria dicendo: “Siamo alla frutta” è la faccia che racchiude la cosa più difficile da comprendere. Perché una città che adora la sua squadra e i suoi campioni, una tifoseria che s'inebria con le bandiere, finiscono sempre per ammainarle da sole. Via, non sei degno di questa maglia. Roma è una madre che mangia i suoi figli. Non provate ad avvicinarvi alla panchina giallorossa se siete tifosi: è il miglior modo di avere la delusione più grande della vita.

    Roma non è dei romani. Claudio Ranieri che lascia Trigoria dicendo: “Siamo alla frutta” è la faccia che racchiude la cosa più difficile da comprendere. Perché una città che adora la sua squadra e i suoi campioni, una tifoseria che s'inebria con le bandiere, finiscono sempre per ammainarle da sole. Via, non sei degno di questa maglia. Roma è una madre che mangia i suoi figli. Non provate ad avvicinarvi alla panchina giallorossa se siete tifosi: è il miglior modo di avere la delusione più grande della vita. Ranieri – che due giorni fa è stato sostituito da Vincenzo Montella sulla panchina della Roma – l'ha appena avuta.

    Lui che sapendo come funziona la sua città non aveva mai neanche voluto avvicinarsi. Apparteneva a una categoria di romani così poco romani da riuscire a respirare, vivere, godere anche fuori dal Raccordo anulare. Anzi più lontano ci stava e meglio viveva: Torino era perfetta, paradossalmente. Non ha mai sofferto il complesso di romanità: tifa Roma perché è nato a Testaccio, perché là il padre Mario c'aveva una delle macellerie storiche del quartiere, perché lui aveva giocato all'oratorio di San Saba e poi finì a Dodicesimo Giallorosso, prima che Helenio Herrera lo andasse a pescare in un provino per portarselo nelle giovanili della Roma e trasformarlo in un terzino.

    Tifa Roma perché certe cose uno se le porta dentro e perché tanto non si possono controllare. Tifa Roma ed è ovvio che un giorno gli sarebbe piaciuto allenarla, anche se invece che a Trigoria la casa l'ha comprata a Formello, cioè dove campa la Lazio. E comunque tifa Roma, perché l'Olimpico e tutto il resto. Però mai una volta ne aveva fatto una malattia, mai in un'intervista s'è autocandidato davvero: non volendo, invece, è finito sempre dove la Roma è avversaria da una vita: prima di Torino, Firenze e prima di Firenze, Napoli. Sarebbe andato anche alla Lazio, senza problemi. E' il caso e anche la professione: per Ranieri non esiste l'idea che uno debba rinunciare a un incarico perché è nato in una città rivale di quella dove lo vogliono. Non deve sopportare molto neanche i calciatori che si rifiutano di esultare contro le ex squadre e che si dispiacciono perché fanno il loro mestiere. Figuriamoci gli allenatori, che devono essere ancora più professionisti: in panchina ci si va per un'idea, non solo per lo spirito di corpo. Ci si siede per lavoro, non per fare il tifo. Si fanno scelte per vincere, non perché così dice il cuore.

    La Roma è stata un approdo sognato fino a un certo punto, nel senso che Ranieri s'immaginava un giorno mister giallorosso, ma senza avercelo come obiettivo di una vita. Il problema è stato quando l'hanno chiamato. Perché ti puoi sforzare di contenere la tua passione e Ranieri l'ha fatto. Perché ti puoi imporre di avere self control, di far credere che Londra sia come Roma, e Ranieri l'ha fatto. Ma se ti chiamano, se ti invocano, se ti cercano, allora cade tutto. In quel momento non sei né un professionista, né una persona matura: torni il tifoso che sei sempre stato e al quale stanno dando in mano la squadra della vita. Capita a tutti, mica solo ai romanisti. Solo che la Roma è diversa. E' così, anche se nessuno sa il perché. Ranieri aveva detto: “Il desiderio più grande della mia vita è allenarla”.

    La chiamata è arrivata quando forse neanche ci credeva più, poche giornate dopo l'inizio del campionato scorso. Anche allora la Roma era messa male, lui arrivò e fece il miracolo: punti e con i punti il gioco, la rivalità con Mourinho e tutta l'Italia anti Inter che stava con lui. Claudio è andato in difficoltà appena se ne è andato José. Paradossi che solo il pallone può raccontare. Come quest'altro: i problemi con Francesco Totti che entrambi hanno minimizzato ma che i giornali e le radio romane hanno enfatizzato. Ranieri il romano osteggiato da Totti il romano. Vero o no? Dipende tutto dai risultati: se vinci, la rivalità è una bugia; se perdi, è la verità. Quindi c'è stata. Ranieri ha cominciato a stuzzicare nervosamente le sue labbra: teso come uno che vorrebbe spaccare il mondo. Quando parlava di sé da giocatore, diceva che ogni tanto non ce la faceva a fermare gli attaccanti avversari: “Certe volte devi menà”. E' uguale anche adesso. Ha provato, ma le ha prese. Gli hanno persino detto: “Dimettiti”. Per il bene della squadra, per il bene della società, per il bene della città. Vedi l'altro paradosso di Roma? Uno che è tifoso e c'ha messo tutto se stesso, deve passare anche per quello che abbandona.

    Ranieri è un capro espiatorio, quello giusto perché romano e romanista. Dev'essere una tragedia, sennò che senso ha? E' una squadra così: diversa nell'amore e diversa nell'odio, nelle clamorose fughe di notizie che arrivano di tanto in tanto e nella capacità di diventare un corpo unico e uno spirito unico. E' tutto, la Roma. E' amore fuori misura e tensioni altrettanto fuori misura. Claudio adesso è Remo Remotti che arringa con sottofondo musicale: “Me ne andavo da quella Roma che ci invidiano tutti, la Roma caput mundi, del Colosseo, dei Fori imperiali, di piazza Venezia, dell'Altare della patria, dell'Università di Roma, quella Roma sempre col sole estate e inverno, quella Roma ch'è meglio di Milano. Me ne andavo da quella Roma dove la gente orinava per le strade, quella Roma fetente e impiegatizia, dei mille bottegai, di Iannetti, di Gucci, di Ventrella, di Bulgari, di Schostal, di Carmignani, di Avegna, quella Roma dove non c'è lavoro, dove non c'è 'na lira, quella Roma der còre de Roma. Me ne andavo da quella Roma della Banca commerciale italiana, del Monte di Pietà, di… chi cazzo, di Campo de' fiori, di piazza Navona, quella Roma che c'hai 'na sigaretta, e prestame cento lire, quella Roma del Coni, del Concorso ippico, quella Roma del Foro che portava e porta ancora il nome di Mussolini, me n'andavo da quella Roma di merda! Mamma Roma! Addio”.

    Lo psicodramma collettivo dei romanisti riempie queste giornate. Ranieri ha fatto le valigie, lascia come un figlio ripudiato, lui che ha visto prima di sé tanti altri fare la stessa fine. Perché la Roma ti porta in cielo e poi ti spiaccica al suolo. Un romano e romanista dovrebbe stargli più lontano possibile. Meglio la nostalgia dell'impossibile che l'amarezza del possibile. Perché anche se ti opponi con tutto te stesso finisce così: stritolato da te stesso e dall'amore che hai per la squadra. Non se ne è salvato uno dei figli di Roma-Medea. Non s'è salvato Carletto Mazzone che non era mai stato sulla panchina della sua squadra e ci è arrivato tardi. Tre anni con due quinti e un settimo posto, epoca grigia per lui e per la squadra. Pensate che qualcuno si sia messo a piangere quando è andato via? La realtà è che la Roma è una squadra in cui si va e si viene come altrove, anche quando sei uno di loro, anche quando professi amore eterno, anche quando sei nato, cresciuto e morirai romanista. Tutti si riempiono la bocca con le bandiere che non esistono, con il calcio che ha massacrato l'affetto, con i soldi che hanno mercificato il mercificabile, ma poi la banalità del male appiattisce tutto molto più della modernità. Roma inghiottisce chi l'ha amata e poi lo sputa, come se fosse uno straniero.

    Nemo propheta in patria è un'ovvietà inevitabile. Però è la drammatica verità. La Roma ha digerito e vomitato Giuseppe Giannini. Il Principe è stato il primo pezzo a cadere. Non si abbattono le statue in una città come quella, oggi si sbriciolano i calciatori, come si faceva con i gladiatori. E' così che va il mondo lì: pollice in su una, due, dieci volte. La folla, le urla, la popolarità; l'Imperatore che se la gode, pensando quanto sarà bello il momento della condanna. Il momento del pollice che va giù ed è la fine. A Roma i giocatori di pallone li mettono all'ingrasso, gli gonfiano il petto di fama e gloria, li adorano come Dei pagani, li fanno diventare grossi come tacchini d'allevamento e belli come pavoni. Grossi e belli: la perfetta carne da macello. Non c'è nessun altro posto così. E' la storia. Cambia soltanto lo scenario: il Colosseo è diventato l'Olimpico. E i derby sono le venationes: ti lanciano lì nell'arena in mezzo alle bestie feroci e ti devi arrangiare. Giuseppe Giannini è finito così. E' finito il 6 marzo 1994. E' finito con l'anfiteatro Flavio dell'era contemporanea con il pollice verso e con la decisione del Cesare Franco Sensi: “Chi sbaglia i rigori non è degno di giocare in questa squadra”.

    Giannini l'ha sbagliato. Giannini l'ha tirato come si tira sul campo di Frattocchie, non al Colosseo: moscio, brutto, indeciso, da fifone. Se hai paura è meglio che non esci affatto, è meglio che resti sotto, dove il pubblico non ti vede e dove non arrivano i fischi. Il fatto è che ai gladiatori insegnano di uscire lo stesso, anche se sanno di dover morire. E' Roma che glielo impone, è Roma che comanda, è Roma che non gli lascia scampo. Puoi decidere di andartene, di trovare il posto per te, quello dove un Principe diventa re davvero: dove c'è un imperatore gli altri possono soltanto fare i vassalli. Possono sperare di entrare nelle grazie del signore, di rendergli omaggio ogni giorno, di restare secondi sempre anche se ci si crede primi. E te lo fa credere questa città che è eterna con le chiacchiere, perché ti illude e ti coccola, ti abbraccia col ponentino, ti manda in bambola fino a ridurti un fantoccio nelle sue mani. Il pallone è la sintesi e l'esasperazione del concetto. Il pallone è lo strumento che qui ti porta al massimo e poi ti riduce al minimo. E se sei uno di Roma, uno nato e cresciuto lì, è peggio, perché la forza di andartene non la trovi neppure se ti senti in trappola. Come Giannini: poteva andare alla Sampdoria o alla Juventus. Doveva scegliere di arrivare in qualche altro posto e ricominciare da Conte per sperare di ritornare Duca e magari qualcosa di più. Doveva pensare che alla fine Roma l'avrebbe stritolato, che sarebbe arrivato il giorno del pollice verso.

    Ha voluto rischiare perché il trucco di Roma è sempre lo stesso, ma tutti ci cascano: un giorno entri nello stadio e senti un coro, ascolti il megafono e ti senti chiamare, guardi la curva e vedi uno stendardo con te sopra che guidi la riscossa di un popolo che non ha mai smesso di sentirsi grande. Giannini è stato un idolo vero, adorato come pochi e idolatrato come soltanto Francesco Totti. Però è caduto. Malamente, miseramente. Abbandonato dalla città che amava e che ama. Il giorno dell'addio, dell'accantonamento vero della maglia giallorossa c'erano mille persone a salutarlo. Mille e basta. Era al Palaghiaccio di Marino, alla periferia dell'Impero. Perché Roma ti fa capire subito quando non sei più il suo leader.

    Giannini, adesso Ranieri. Anche Bruno Conti, in un certo senso. E' rimasto, sì, però Roma l'ha mangiato ugualmente: ha preso il suo più bravo figlio della generazione dello scudetto 1983 e l'ha trasformato in un reduce. E' come se ci fosse un legame così stretto da non poterne più uscire, se non morti. Conti è rimasto ai margini di se stesso: dirigente quasi sempre nell'ombra, con visibilità ridotta e poche possibilità di essere divorato pubblicamente. Limitare il proprio raggio d'azione è stata la salvezza. Quello che ha distrutto Giannini, Conti l'ha evitato. Ora pende sul capo del più grande di tutti. Perché Ranieri è andato, ma Francesco Totti no. E Totti è di più. Qui l'abbiamo già scritto: lo chiamano bandiera, con quel tocco di nostalgia in grado di ammazzare il romanticismo racchiuso nella volontà di rimanere a ogni costo a casa propria per farla diventare grande come mai. Totti bandiera è un'ovvietà che non esalta Francesco: lui è un patrimonio, che è la stessa cosa, ma molto più ampia. E' l'invidia di chi non ha un indigeno che parte dalle giovanili e arriva a essere il capitano di una squadra che rivince lo scudetto dopo quasi vent'anni. Bandiera può diventarlo quasi chiunque. Patrimonio no.

    Il Totti di quest'anno, però, per la prima volta nella vita ha sentito su di sé un'aria brutta. Che è la lite-non lite con Ranieri, ma non solo. Ha sentito cose strane, ha visto un vetro della macchina sfregiato, ha subito qualche piccolo danneggiamento. E' come mettere in dubbio il Re nel suo regno. Lo sa lui e lo sanno gli altri che Francesco ha imboccato nell'inizio di stagione più difficile della sua carriera. La novità sua e della sua carriera è che quest'anno c'è nessuno che l'aspetta. Ha se stesso invecchiato e non è certo l'uomo che vuole raggiungere il prima possibile. Allora combatterà, lotterà, s'arrabbierà, segnerà.

    Farà Totti, sarà Totti, cioè Roma e la Roma, il capitano di una squadra e anche di un'era. Chi non è tifoso romanista lo rispetta per la sua scelta di essere ciò che è stato per tutti questi anni: il patriota di un mondo fatto di senza patrie. Però rischia. Perché il corto circuito del pallone poi non vede la verità. Vede quello che la realtà lascia apparire al momento. Vive di presente, salvo poi tuffarsi nel passato soltanto quando deve inumidirsi gli occhi per la nostalgia. Mentre giochi, mentre alleni, mentre ci sei, il calcio può farti male: ti addossa colpe e responsabilità, ti espone in piazza col cappio del contratto al collo. Totti vuole certezze per se stesso, perché ha visto gli altri, compreso Ranieri che non sarà stato il suo massimo alleato, ma con il quale ha condiviso un quasi miracolo. Roma è grande. Grandissima. Roma ama, esalta, adora. Poi accade qualcosa. Può anche ammazzarti. E se sei suo figlio fai fatica ad accettarlo.