La giustizia dell'Aia sarà piacevole, ma è soprattutto ipocrita
Pare che nel diritto internazionale ci sia finalmente qualcosa di “piacevole”: lo ha scritto ieri su Repubblica Antonio Cassese. Ex presidente del Tribunale penale internazionale (Tpi) per l'ex Yugoslavia, attuale capo del Tribunale speciale sul Libano (Tsl), l'alto magistrato e noto giurista italiano milita da anni e con ardore perché sia messo il corpetto del diritto anche ai confitti tribali ed etnici, alle guerre civili, alle guerre asimmetriche.
Pare che nel diritto internazionale ci sia finalmente qualcosa di “piacevole”: lo ha scritto ieri su Repubblica Antonio Cassese. Ex presidente del Tribunale penale internazionale (Tpi) per l'ex Yugoslavia, attuale capo del Tribunale speciale sul Libano (Tsl), l'alto magistrato e noto giurista italiano milita da anni e con ardore perché sia messo il corpetto del diritto anche ai confitti tribali ed etnici, alle guerre civili, alle guerre asimmetriche. E che i “crimina iuris gentium” siano severamente puniti.
Secondo Cassese, grazie alla determinazione di Obama e dei paesi europei, per la prima volta Stati Uniti, Russia e Cina hanno accettato che Gheddafi e chiunque altro abbia commesso crimini in Libia siano deferiti alla Corte penale internazionale, dando legittimità a un'istanza giuridica sovranazionale. E' dunque “piacevole” che il procuratore della Corte dell'Aia possa investigare su quello che è successo dall'inizio della repressione, che possa chiedere i conti non solo ai compari del colonnello, ma anche ai rivoltosi. Che entro due mesi debba riferire al Consiglio di sicurezza dell'Onu, tenendolo poi aggiornato ogni sei mesi. I mercenari non libici non saranno giudicati dalla Corte, ma dagli stati di appartenenza. Qualche giorno fa, però, proprio il procuratore capo dell'Aia Luis Moreno Ocampo ha precisato che “tocca ai libici decidere se giustizia deve essere fatta nel loro paese”, e che “la Corte potrà perseguire eventuali crimini solo se le autorità libiche ne accetteranno la competenza”. Non è certo che questo accada.
Il bilancio dei vari tribunali internazionali è fin qui modesto e non solo per le ambiguità che ne intaccano la legittimità e l'autorevolezza. Milosevic, indicato come il principale responsabile della pulizia etnica nei Balcani, viene consegnato al Tpi costituito ad hoc nel 2001: si difende come un leone chiamando in causa Bill Clinton e la Nato, muore cinque anni dopo nella sua cella all'Aia in circostanze mai chiarite. Una sconfitta totale per noi, dirà l'allora procuratore Carla Del Ponte. Anche Milan Babic e Slavko Dokmanovic, ex leader dei serbi di Croazia, si suicidano sempre all'Aja: alla sbarra c'è ancora il “combattivo” dottor Karadzic. Delle migliaia di responsabili del genocidio Tutsi in Ruanda, una cinquantina sono stati condannati, buona parte scontano la pena in prigioni africane.
Le democrazie hanno ritrovato un senso di sé inventando quel diritto di guardare in casa altrui che è la cosiddetta ingerenza umanitaria. I tribunali sovranazionali sono l'altra faccia di questa medaglia. Ma forse, piuttosto che inchinarsi ipocritamente ai rapporti di forza, invece di occuparsi di diritti in Libia e dimenticare quelli in Cecenia, è ancora tutto sommato preferibile la giustizia d'antan. Quella sommaria. Chi vince ha ragione. E chi perde muore o tace.
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