Palloni non gonfiati
I miracoli sono un'altra cosa. Udine parla tanto per essere nord est: parla di sogni, di progetti, di idee. Questo, quello, su, giù. Soldi, anche. Perché senza non è possibile che ci sia tutto il resto. I conti si fanno adesso per l'anno prossimo e per quello dopo e quello dopo ancora. Pianificazione, dicono. Terribile il termine, fantastico il significato. Il senso: sono vent'anni che l'Udinese gioca, vince, si diverte, compra, vende. Parlano di favole perché non hanno voglia di trovare spiegazioni semplici: meglio l'imponderabile, meglio frasi come “quella strana alchimia”, meglio cercare una chiave che sia letteratura invece che cronaca.
I miracoli sono un'altra cosa. Udine parla tanto per essere nord est: parla di sogni, di progetti, di idee. Questo, quello, su, giù. Soldi, anche. Perché senza non è possibile che ci sia tutto il resto. I conti si fanno adesso per l'anno prossimo e per quello dopo e quello dopo ancora. Pianificazione, dicono. Terribile il termine, fantastico il significato. Il senso: sono vent'anni che l'Udinese gioca, vince, si diverte, compra, vende. Parlano di favole perché non hanno voglia di trovare spiegazioni semplici: meglio l'imponderabile, meglio frasi come “quella strana alchimia”, meglio cercare una chiave che sia letteratura invece che cronaca. Invece l'Udinese è vera. Corre, vince, segna, fa punti. Vede l'Europa che ha già visto diverse volte nell'ultimo ventennio. E' vicina, la può toccare. La Champions è un risultato possibile, l'ex Uefa è l'obiettivo più realistico. Ma non cambia molto, non per Udine. Questa è la squadra che ha captato il desiderio del tifoso di provincia: non vuole trionfare, vuole stare al centro del pallone. Non servono medaglie o coppe, serve sapere che ogni anno il tuo posto in tribuna, in curva o sul divano di casa è la certezza di vedere calcio vero, di giocarsela da tripla con chiunque. Udine è come se fosse una franchigia del basket Nba: fa conto che non esiste l'ipotesi della retrocessione, allora può permettersi di sperimentare, di provare, di azzardare, di cercare e trovare giovani che poi saranno venduti per comprarne altri. La dirigenza dice adesso che “non sono un supermercato”. Certo, però gli occhi di tutto lo staff ruotano come le slot machine: si finisce sempre sui dollari e si possono scaricare le vincite. In pochi anni, la squadra ha visto salire il suo valore complessivo di oltre il 500 per cento. Il Corriere della Sera, qualche tempo fa, ha fatto i conti: “Il portiere Handanovic, pagato 40 mila euro dagli sloveni del Domzale 7 anni fa, ora vale 10-12 milioni, l'attaccante Sànchez, costato 2 milioni dal Colo Colo e che a giugno non partirà per meno di 30. Benatia e Zapata, strappati al Clermont in Francia e al Cali in Colombia per 500 mila euro, ora costano non meno di 7 milioni di euro. Armero era stato bocciato dal Parma, che non spese 200 mila euro. E senza dimenticare i giovani della prima ora Asamoah e Inler. L'Udinese ha un tetto stipendi di un milione di euro, e i contratti sono sempre quinquennali. Così ci si mette al riparo da ricatti di agenti e giocatori. Solo Denis è in comproprietà, Corradi l'unico in scadenza. Tutti sono bianconeri fino al 2013, tranne Pinzi che sta per rinnovare”.
Il patrimonio alimenta le possibilità di mettere su ogni anno una squadra competitiva. Vendi uno, ne compri un altro, magari due, se possibile tre. Li prendono giovani, li prendono all'estero, li prendono mandando in giro una rete di osservatori che nessun altro ha sviluppato così. Li gestisce tutti Andrea Carnevale, uno che la gente si ricorda sempre o a Roma o a Napoli e che invece ha deciso di tornare a Udine, dov'era stato da ragazzo e poi da giocatore a fine carriera. “Conobbi il patron Giampaolo Pozzo prima che acquistasse la società, mi convinse ad accettare Napoli, sarei rimasto qui a nord-est. Nel 2001 mi affidò questo lavoro oscuro, dietro le quinte”. Prima lo aiutava Barbadillo (ex Avellino e Udinese anni Ottanta): al peruviano era affidato il compito di guardare ogni dvd che arrivava con segnalazioni di nuovi calciatori. Adesso Carnevale guida uno staff di 20 osservatori. Pochi giorni fa, parlando col Giornale, Andrea ha raccontato di prendere meno di 100 mila euro l'anno, nonostante abbia fatto guadagnare alla famiglia Pozzo mille volte tanto. Perché ha trovato promesse ovunque e li ha trasformati in giocatori vedi: Pizarro, Iaquinta, Quagliarella, De Sanctis, Motta, Pepe, Di Michele, Barreto, adesso Alexis Sànchez: “Se Zamparini valuta Pastore 40 milioni, quanto vale il nostro scassinatore delle difese? Potrebbe diventare Maradona. Mentalmente è fortissimo, per come si allena. Raggiungerà i primi al mondo, i livelli di Messi e Cristiano Ronaldo”.
Ci credono, perché Udine è il posto perfetto per farlo. Non ti dicono mai di non vendere. La gente si fida: sanno che Pozzo o chi per lui mette sul mercato i giocatori per investire ancora. E' la forza del mercato. La società non offre contratti da nababbi, ma garantisce la possibilità di diventare qualcuno. Perché se giochi nell'Udinese qualcuno ti vede di sicuro e allora ti cambia la vita. Allora decidi: vai o resti. Nessuno s'offende, nessuno sbraita. Molti lasciano, Di Natale no. Perché uno può scegliere di rimanere in provincia come fece Gigi Riva a Cagliari. Antonio l'ha fatto quest'anno. No alla Juve, no a nessun altro. Vuole questo posto, questo clima, questa dimensione. Sono anni che si vede in giro, che si sente, che tocca un pallone inutile e lo trasforma in una perla. Forte e concreto. Un fuoriclasse utile. Non è uno di quelli belli da vedere e poi vuoti: se leggi la statistica, i numeri raccontano che in un campionato Di Natale fa la differenza. Non ora. L'anno scorso, quello prima e quello prima ancora. E' diventato maturo a forza di stagioni da leader. Senza parlare tanto, senza andare in tv. In campo. Qualcuno l'ha catalogato nelle promesse eterne. Sbagliato. Di Natale non è né una né l'altra: è la realtà che supera l'orribile manifesto della pubblicità Dolce & Gabbana alla quale ha prestato volto e corpo. La realtà è quella di un calciatore stabilmente tra i migliori in una squadra stabilmente tra le migliori. Appartiene a quella categoria così certa che finisce per diventare superflua. Gente che gioca bene sempre e comunque, sempre e ovunque. E' l'evoluzione della generazione degli Hubner e dei Protti. Quelli che segnavano e facevano godere la provincia, solo che non riuscivano mai a trovarsi il loro spazio fuori dalla penombra. Di Natale viene fuori. S'illumina ora che l'età non permette più di scherzare poi tanto. Trentatrè anni, forse troppi: lui dice di no, dice che ne avrà tre o quattro ancora, che il futuro è ancora lontano. Oggi e mai domani: è la dannazione di chi è fortissimo, ma ha deciso di esserlo restando in una squadra di seconda fascia. Perché l'Udinese è simpatica, diverte, però resta là. Antonio può tirarla finché vuole, può trascinarla ogni volta dove non se l'aspetta più nessuno: prenderà sempre il quinto posto, bene che gli vada. Di Natale per molti avrebbe potuto meritare di più: qualcosa e qualcuno che gli dia la possibilità di arrivare dove non è ancora arrivato. Avrebbe potuto, però non ha voluto. Al di là delle ipotesi, delle offerte e del mercato che travolge tutto, il domani che serve a un calciatore così è la certezza di essere un leader: in provincia dove sembra contare meno, ma dove a volte serve di più. Perché Udine attrae anche per lui. Un giocatore indeciso vede Totò e sceglie l'Udinese. Bastano poche immagini. Basta questo: Di Natale che accarezza il pallone. Siamo sempre lì: 22 settembre 2007, il giorno in cui Totò ha perso definitivamente ogni alibi. Udinese-Reggina 2-0. Doppietta. Quel capolavoro di prima era il secondo. Ce ne era stato anche un altro: un tocco di interno destro dalla linea di fondo. Poi giro-giro-giro, pallonetto al portiere e ciao.
Anche questo non è un miracolo. E' un'altra cosa: la consapevolezza sua e di tutti gli altri che il calcio vero si possa vedere anche fuori da Milano, Torino e Roma. Di Natale è l'immagine di tutta la provincia del calcio: è il simbolo di una scelta. Alexis Sanchez sarà l'oggetto del mercato dell'estate prossima. Lo cercheranno l'Inter, il Barcellona, il Real, il Milan, la Juventus. Andrà da qualche parte. Giusto così, perché Udine vuole questo e il giocatore pure. Totò resterà a raccontare ancora che l'Udinese è una certezza, che si può essere grandi anche da piccoli. Perché un metro e settanta non basta a raccontare una carriera diversa da quella degli altri fenomeni. Antonio è partito tranquillo, normale: come uno che avrebbe dovuto fare una carriera onesta e discreta. Prendi quello che viene. Lo mandarono anche in serie C a maturare e crescere. Adesso quelli forti per davvero non lo fanno più: si prendono e si lanciano in mezzo al campo in serie A. A sedici, diciassette, diciotto anni: perché alla fine la C è più dura della Champions. Di Natale invece è diventato quello che è adesso per merito di una stagione da favola a Viareggio, in C2. Lo allenava Roberto Pruzzo. Fece dodici gol. L'Empoli era il club che l'aveva preso bambino dai campetti di Napoli e dopo quella stagione decise di riprenderlo per la prima squadra. Si ricordarono dell'inizio. Cioè proprio del primo giorno: Totò era troppo piccolo per essere preso. Aveva 14 anni era il più basso di tutti. Non aveva neanche una maglia che gli andasse bene il giorno del provino. Quelli non lo volevano: a guardare c'era il direttore sportivo dell'Empoli, Fabrizio Lucchesi. Di Natale si avvicinò: “Tocca a me?”. E quello: sì, ma se vuoi sperare di essere preso devi fare tre gol in un quarto d'ora. Lucchesi se ne andò su una piccola collinetta. Al minuto dodici, Totò aveva già fatto quattro gol.
Di Natale deve tutto a se stesso e alla provincia che l'ha fatto diventare fenomeno. Empoli e poi Udine. Questa è la sua grande, così come lo è per molti compagni. Perché l'Udinese è tutti quei giocatori giovani che vanno e vengono, quegli stranieri che arrivano, si formano e poi finiscono in club importanti. Però l'Udinese è anche un gruppo di certezze che spesso non si vedono: gente alla Domizzi, alla Pinzi, alla Coda, alla Pasquale. Invisibili altrove, fondamentali lì. Messi in campo come si deve da uno che è il Di Natale della panchina. Perché Guidolin avrebbe meritato una grande, non l'ha avuta e adesso non la cerca più. Dice così: “Io, ce l'ho già, ed è l'Udinese”. Ci crede anche lui, perché è giusto che sia così. Ci crede anche perché nessuno ha pensato di cacciarlo dopo quattro sconfitte nelle prime quattro giornate di campionato. Pozzo non l'ha fatto per beneficenza, né per risparmiare: l'ha fatto perché sapeva che Guidolin è uno dei migliori allenatori su piazza. Lo sa perché l'ha già avuto a Udine e perché l'ha visto anche altrove. Uno che sa cambiare, che è nato sacchiano e poi ha trovato la sua strada. Su una bici ha concepito il modulo a due mezze punte più una punta: è il centrotavola della sua carriera. Cioè ha preso Sacchi, il sacchismo, e l'ha rivoluzionato, mantenendo fede al concetto originale: squadra-collettivo-armonia. Solo che Arrigo moriva senza il 4-4-2, Francesco ha cambiato: 3-4-2-1. Però non parlategli di numeri che s'innervosisce: “Gli schemi non contano, conta la predisposizione dei calciatori a giocare in una certa maniera”. Poi un'altra invenzione: per capire bene come far muovere i giocatori ogni tanto si guarda le partite dalla tribuna, lasciando il vice in panchina. L'idea gli venne qualche anno fa, quando gli diedero una giornata di squalifica. Quel giorno, contro il Bari, dall'alto guidò le scelte attraverso un cellulare. Alla partita dopo poteva tornare in panchina, ma scelse di nuovo la tribuna. Niente scaramanzia, ma un'idea: “Riesco a capire meglio dove siamo in sofferenza”. Allora cambia in corsa: modulo, tattica, atteggiamento. Provate a parlare con qualunque altro allenatore della serie A e a chiedergli qual è la squadra che l'ha messo più in difficoltà: diranno l'Udinese, perché Guidolin è il più bravo di tutti nel capire come fermare gli altri. La base, no? Come in bici: servono le gambe, però se non controlli l'avversario, quello può anche fregarti. Francesco ordina il pressing più forte e asfissiante della serie A: prima bloccare l'avversario, poi il resto. Gliel'ha insegnato la vita, oltre che il pallone. Una volta l'avversario era se stesso: “Da giocatore ero il bravo ragazzo che subiva un po' il gruppo, che soffriva il mugugno della gente, il calciatore che non aveva gli attributi. La mia carriera da calciatore non ha lasciato traccia per questo, anche se tecnicamente non mi mancava proprio niente. Da allenatore sono completamente cambiato. E' successo nel giro di pochissimo tempo, intorno ai trent'anni. Sono successe alcune cose, come la morte di mio padre, che mi hanno fatto cambiare di colpo, forse proprio per questo ho provato a fare l'allenatore. Era una sfida con me stesso. Volevo mettermi alla prova, riscattare dieci anni in cui le promesse erano state tante, ma non le avevo mai mantenute”.
Udine è una certezza anche per lui: i sette gol al Palermo fuori casa sono solo una mezza vendetta. La Sicilia e Zamparini sono stati la sintesi di un periodo felice e teso. E' andato, è tornato. Palermo è rimasta cosa sua, perché nessuno si dimentica di un signore con pochi sorrisi che ti riporta in A dopo 31 anni. Sì, c'è pure il presidente, ma quello appartiene a un'altra categoria. L'allenatore è diverso: è uno stipendiato, un signore pagato per fare qualcosa. Lui l'ha fatta: il Palermo del ritorno in A e della Coppa Uefa è quello di Guidolin, non quello di Zamparini. Alla storia di una città le squadre passano per il nome del mister e di qualche giocatore. Chi mette i soldi vorrebbe tutto per sé, ma ha un ruolo secondario: a lui va comunque qualcosa in tasca, anche quando spende. Non può pretendere di avere anche la gloria. Quella è di chi va in campo: chi decide e chi esegue gli ordini, chi s'assume la responsabilità di una scelta nella partita decisiva e di chi non ha paura a prendere in mano la palla del rigore che può significare vittoria. L'anima è questa, il presidente può parlare a sproposito, può alzare la voce in tv, può minacciare pubblicamente l'allenatore di licenziamento oppure suggerire come far giocare la squadra. Francesco queste cose non le sopporta proprio. Udine gli ha dato la libertà di essere se stesso fino in fondo. Non è soltanto il fatto di non essere stato esonerato dopo quattro sconfitte consecutive all'inizio del campionato. Cioè, c'è quello, ma c'è anche altro. C'è una dimensione che va al di là del risultato. Si costruisce qualcosa per il futuro, sapendo che ci devono guadagnare tutti: società, allenatore, giocatori, tifosi, città. Si può fare anche vendendo e rifondando ogni volta. Si può fare dando fiducia a un allenatore. Si può fare se si lascia decidere al calciatore più importante di restare nonostante la sua vendita possa far comodo. Si può fare a nord est, senza doverlo chiamare miracolo per forza. Si può fare se ragioni come l'Udinese. Si può fare sapendo che domina il mercato: quello dei calciatori e quello dei bilanci. Si può fare se capisci che per far andare il mercato devi andare avanti senza guardarti indietro.
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