Il patto della pochette
Così il gesto del Cav. federalista cambia l'aria dentro e fuori la Lega
“Berlusconi si è messo il fazzoletto verde, ma cosa vogliamo di più?”. Umberto Bossi è soddisfatto per aver centrato la prima fase del federalismo fiscale, sa che c'è da chiudere ancora la parte più importante che riguarda le regioni (a maggio), ma è orientato all'ottimismo nei confronti delle capacità di tenuta del governo – cui non si negherà nulla in tema di giustizia – e di Silvio Berlusconi.
“Berlusconi si è messo il fazzoletto verde, ma cosa vogliamo di più?”. Umberto Bossi è soddisfatto per aver centrato la prima fase del federalismo fiscale, sa che c'è da chiudere ancora la parte più importante che riguarda le regioni (a maggio), ma è orientato all'ottimismo nei confronti delle capacità di tenuta del governo – cui non si negherà nulla in tema di giustizia – e di Silvio Berlusconi. Lunedì prossimo il leader leghista lo dirà al proprio stato maggiore, riunito a Milano nel consiglio federale: il massimo organo rappresentativo della Lega, composto dai ministri, dai segretari regionali, dai governatori, dai capigruppo di Camera e Senato. Una riunione attesa che segnerà la strategia per i mesi a venire. “Staccare la spina al governo? E per cosa?”.
L'aria è già cambiata. Si avvicinano il voto delle amministrative e l'inizio del processo al premier sul caso Ruby (il 6 aprile). Nei confronti del Cav. padanizzato, e rispettoso dei patti, prevale un sentimento di solidarietà che ha già provocato il declinare della linea più insofferente, negli ultimi mesi tatticamente interpretata da Roberto Maroni. Un gioco delle parti che aveva diviso il ministro dell'Interno dal più filoberlusconiano Roberto Calderoli. Una strategia che lo stesso Maroni, in privato, spesso, era tuttavia finito col rivelare (“Quello che dico io lo pensa anche Bossi… E anche quello che dice Calderoli lo pensa Bossi”). Una tattica, con la regia del leader, che ha visto vittima inconsapevole Pier Luigi Bersani, il segretario del Pd che Bossi volle intervistato sul federalismo dal suo quotidiano, la Padania, per ingelosire (e ammonire) Berlusconi. Ma anche per ottenere una sapida legittimazione dal centrosinistra, che pure aveva definito la Lega “impresentabile”.
Lunedì Bossi farà chiarezza su tutto: amministrative, immigrazione, questioni interne. Perché se la divaricazione tra Calderoli e Maroni era più verosimile che vera, la Lega rimane attraversata da linee di frattura interne al gruppo dirigente (l'intervista, ieri, di Calderoli a Panorama dove si criticava Flavio Tosi) e al cerchio magico bossiano. Un contesto in cui Maroni è catalizzatore ontologico di antipatia e invidia.
Le linee di frattura sono diverse, ma forse meno rilevanti di quanto non possano apparire. Tra Maroni e il cosiddetto “cerchio magico”, ovvero i dirigenti umanamente più vicini a Bossi (da Marco Reguzzoni a Rosy Mauro), non corre buon sangue. Anche Giancarlo Giorgetti, capo varesotto, è fatto oggetto di retropensieri per le sue presunte ambizioni di leadership sulla Lega lombarda e persino sull'intero partito. “E' il delfino, ma lo nega”, scrivevano di lui i diplomatici americani nei report che Wikileaks ha reso pubblici e che ieri hanno scatenato gli antipatizzanti all'interno della Lega.
Meccaniche fisiologiche in ogni partito. Come quelle del Veneto, dove si consuma da mesi una guerra neanche troppo occulta tra la generazione dei giovani emergenti (Flavio Tosi, Luca Zaia, Massimo Bitonci) e la vecchia guardia (Manuela Dal Lago, Stefano Stefani, Gian Paolo Gobbo). Conflitti tutto sommato laterali. La paventata divaricazione tra i sostenitori dell'asse con Berlusconi e gli affezionati a soluzioni pararibaltonistiche (e tremontiane), se mai è davvero esistita, è scomparsa dall'orizzonte. “Bossi vult”, spiegano al Foglio.
E lunedì prossimo sarà un giorno importante, perché oltre a definire alleanze e candidature alle amministrative, il leader chiederà una moratoria di tutti i conflitti interni (troppo spesso ormai tracimati sino alle redazioni dei quotidiani. Anche con interviste polemiche). Il volano strategico, da qui alle elezioni, saranno i flussi migratori dal nord Africa. Maroni – ieri al Pirellone (dove ha evitato Roberto Formigoni, chissà perché) – ha già deciso che se ne occuperanno le regioni, coordinate dalla Lombardia (e dal suo vicegovernatore leghista).
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