Sulle tracce di Gheddafi

Qui si spiega perché un attacco in Libia è meglio della “no fly zone”

Daniele Raineri

America e Gran Bretagna non intendono farsi risucchiare in un'altra guerra di terra in un paese islamico. Ma sanno anche che invocare una “no fly zone” sulla Libia per impedire a Gheddafi di bombardare la propria gente è molto più facile a dirsi – e infatti tutti ne stanno parlando – che a farsi.

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    America e Gran Bretagna non intendono farsi risucchiare in un'altra guerra di terra in un paese islamico. Ma sanno anche che invocare una “no fly zone” sulla Libia per impedire a Gheddafi di bombardare la propria gente è molto più facile a dirsi – e infatti tutti ne stanno parlando – che a farsi.
    Prima di tutto, non sarebbe qualcosa di meno di un atto di guerra, una via di mezzo depotenziata, ma sarebbe un atto di guerra reale contro Tripoli. Il generale James Mattis, a capo del Centcom, il settore del Pentagono che si occupa del medio oriente, ha chiarito una settimana fa che gli americani, prima di imporre una “no fly zone”, fanno saltare le difese antiaeree del nemico per non diventare bersagli facili in volo permanente su un territorio controllato da un regime ostile. Così dice la dottrina militare studiata per questi casi.

    La lista degli obiettivi da fare fuori comprende non soltanto postazioni di missili e batterie di cannoni antiaerei, ma anche stazioni radar e sistemi di comunicazione. “Sarebbe un'operazione militare”, ha detto Mattis davanti al Senato. Il suo capo al Pentagono, il segretario alla Difesa Robert Gates, ha battuto sullo stesso concetto: le “no fly zone” implicano un attacco militare per dissodare il terreno. Domenica, il nuovo capo dello staff di Barack Obama, Bill Daley, intervistato dalla rete Nbc, ha perso la pazienza: “Troppa gente butta in mezzo l'idea di una ‘no fly zone' e ne parla come se fosse un video gioco o qualcosa del genere. Qualcuno non sa nemmeno di che cosa sta parlando”.
    Se il mondo vuole impedire agli aerei di Gheddafi di alzarsi in volo, allora creare un coperchio aereo 24 ore su 24 per un tempo indeterminato – che succede se nel frattempo il dittatore prevale contro i ribelli? Gli si restituisce lo spazio aereo? – sulla Libia non è la soluzione migliore. Come hanno dimostrato le esperienze in Bosnia e in Iraq, mantenere in vigore una “no fly zone” è più difficile di quanto credano i civili. La Libia è grande quattro volte la Germania e, secondo gli esperti, sarebbero necessari centinaia di aerei da combattimento e aerei da rifornimento nonché il coinvolgimento di tutte le strutture Nato nel Mediterraneo, comprese quelle di Italia e Turchia. Gheddafi, che non è stupido, ha già cominciato a spostare gli aerei dalla linea costiera verso le basi 1.300 chilometri più a sud, nel deserto, per rendere eventualmente il compito dei controllori più difficile e costoso. E cosa succede se un equipaggio americano o di chi che sia è abbattuto da uno dei missili portatili che il regime possiede, come accadde nel 1985, quando Ronald Reagan bombardò Tripoli per rappresaglia contro un attacco terroristico? Una “no fly zone” prevede anche la presenza di elicotteri e squadre speciali di soccorso o di intervento non troppo distanti.

    Anziché aspettare giorno e notte che gli aerei nemici si alzino in volo, sarebbe più efficace, più veloce e più sicuro localizzarli e distruggerli a terra. Un attacco aereo “crippling”, storpiante, che paralizzi l'aviazione di Gheddafi in un giorno solo, una volta per tutte e quando è ancora ferma. I rischi per i piloti sarebbero uguali a quelli delle perlustrazioni senza soste richieste da una “no fly zone”, ma per un tempo infinitamente più breve. Le piste di decollo e atterraggio potrebbero essere rese inservibili e i depositi di carburante distrutti. Il risultato finale sarebbe lo stesso. Inoltre, tra le opzioni studiate dal Pentagono, c'è il disturbo elettronico dallo spazio aereo internazionale per tagliare le comunicazioni tra la capitale e le sue unità militari. La lotta tra i mercenari e l'opposizione diverrebbe ad armi pari, o quasi.

    Ci sono ovvie considerazioni che in questo momento tormentano la Casa Bianca. Non esiste un bombardamento senza vittime. E un attacco esterno contro la Libia rafforzerebbe la propaganda di un regime che sta tentando di compattare attorno a sé gli indecisi. Poi c'è la reazione degli altri paesi. Ma anche in questo caso, è da vedere che un'azione aerea veloce non abbia più strascichi di un assedio aereo a tempo indeterminato e che impone lo stesso di bombardare. Il raid del 1985 svanì rapidamente dai discorsi diplomatici.

    Secondo il New York Times, sono gli stessi ribelli a implorare – il New York Times usa il verbo “to beg” – un intervento internazionale contro gli aerei e gli elicotteri di Gheddafi anche se sono contro a ogni interferenza su terra, e per questo hanno appena rispedito a casa una squadra delle forze speciali inglesi atterrata con un diplomatico. L'ambasciatore libico a Washington, Ali Aujali, passato con i ribelli dopo aver sentito il figlio del rais promettere “fiumi di sangue”, chiede all'America “di fare di più per fermare il massacro. Non date tempo al regime di schiacciare il popolo libico”. Anche se Gheddafi è indebolito, ha ancora la possibilità di colpire e schiacciare dall'aria i suoi oppositori, ed è una differenza incolmabile. Nel 1991 Saddam Hussein in Iraq non fu disarmato dei suoi elicotteri dagli americani (che l'avevano appena cacciato dal Kuwait e avevano incenerito parte del suo esercito) e riuscì a reprimere con violenza estrema le sollevazioni degli sciiti, con metodi identici – spari dagli elicotteri sulla folla – a quelli che i testimoni hanno raccontato in questi giorni dalla Libia. Vent'anni fa, l'errore della Casa Bianca passò quasi inosservato ma consentì a Saddam di eliminare il dissenso interno, di sopravvivere e di arrivare all'appuntamento con la guerra disastrosa del 2003.

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    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)