I testamenti paralleli (ma non biologici) di un cattolico omosessuale e un ebreo panteista
Chi ha avuto la fortuna di cogliere la coincidenza, la sera del 5 marzo ha ascoltato alla Scala di Milano “Death in Venice” di Benjamin Britten (si replica sino al 19 marzo) e il pomeriggio del 6 marzo la Nona di Gustav Mahler all'Auditorium Conciliazione a Roma (si è replicato il 6 ma dal 2 al 5 aprile la si può ascoltare all'Accademia Nazionale di Santa Cecilia). C'è un nesso molto forte tra i due lavori: sono due testamenti di due musicisti fondamentali per comprendere il Novecento.
Chi ha avuto la fortuna di cogliere la coincidenza, la sera del 5 marzo ha ascoltato alla Scala di Milano “Death in Venice” di Benjamin Britten (si replica sino al 19 marzo) e il pomeriggio del 6 marzo la Nona di Gustav Mahler all'Auditorium Conciliazione a Roma (si è replicato il 6 ma dal 2 al 5 aprile la si può ascoltare all'Accademia Nazionale di Santa Cecilia). C'è un nesso molto forte tra i due lavori: sono due testamenti di due musicisti fondamentali per comprendere il Novecento. Sono stati concepiti e composti quando i due autori sapevano di essere, pur ancora giovani, afflitti da gravi insufficienze cardiache che di lì a poco li avrebbero portati alla tomba. Sono state due esecuzioni eccellenti: l'opera di Britten è giunta alla Scala in un allestimento coprodotto con l'English National Opera che già da quattro anni entusiasma il pubblico europeo, mentre la Nona di Mahler, diretta da Francesco La Vecchia, è stata un'ulteriore prova di come la giovane Orchestra Sinfonica di Roma gareggi bene con i maggiori complessi europei.
Nelle recensioni e nei commenti, però, pochi hanno colto il legame tra i due testamenti. Non biologici, ovviamente, poiché Britten e Mahler guardavano molto più in là quando si apprestava la fine della loro esistenza terrena. Britten era il compositore ufficiale della Corte inglese (di una Corte non protestante ma non per questo meno bigotta: in quegli anni la censura britannica aveva vietato la messa in scena di uno “Sguardo dal Ponte” di Arthur Miller con la motivazione che avrebbe traviato i giovani portandoli sul sentiero dell'omosessualità). Britten era un personaggio scomodo in quanto cattolico praticante che conviveva dall'età di 23 anni con il tenore Peter Pears, a cui “Death in Venice” è dedicata come ultimo dono d'amore. Nella sua interpretazione della novella di Thomas Mann non c'è l'attrazione omoerotica centrale nella versione cinematografica realizzata proprio in quegli anni da Luchino Visconti. Il tema centrale è la contrizione dell'intellettuale per ciò che avrebbe potuto fare ma non ha fatto, unitamente al senso della giovinezza e bellezza perduta e con cui non si riesce più a comunicare. La morte arriva sulla spiaggia del Lido mentre la giovinezza corre al mare. Una fine “diversa”, ma pur sempre cattolica.
Mahler si era convertito al cattolicesimo in pompa magna, ma senza crederci davvero, e con un unico obiettivo opportunista: diventare il capo di quell'Opera di Vienna che invece gli diede tante grane e amarezze da accelerarne la malattia. Era un ebreo non credente che, dopo il tanto soffrire da direttore del teatro (oltre che per vicende personali e familiari), si avvicinava al panteismo Zen (già toccato nella Terza sinfonia). Nella Nona ascoltata all'Auditorium di Via della Conciliazione, lo si avverte quando dopo i primi tre movimenti (un rimpianto per la giovinezza non distante da quello di Britten) si scivola nell'adagio del quarto che trasuda di amore per la terra e per la natura. Mentre Britten guarda al Cielo, Mahler si ricongiunge, con serenità zen, ai grumi delle terra e della vegetazione da cui pensa di essere venuto.
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