L'amore di Orvieto

Paolo Rodari

“La cultura del sospetto ha generato un mostro. Quel mostro sono io, Giovanni Scanavino, fino a sabato scorso vescovo di Orvieto-Todi e oggi semplice frate agostiniano in cerca di una casa in cui andare a ritirarmi”. Non piange su se stesso Scanavino. E nemmeno vuole accusare il Vaticano che ha deciso per le sue dimissioni. Anche perché dietro di esse ci sono persone che hanno motivi validi, e che Scanavino rispetta.

    “La cultura del sospetto ha generato un mostro. Quel mostro sono io, Giovanni Scanavino, fino a sabato scorso vescovo di Orvieto-Todi e oggi semplice frate agostiniano in cerca di una casa in cui andare a ritirarmi”. Non piange su se stesso Scanavino. E nemmeno vuole accusare il Vaticano che ha deciso per le sue dimissioni. Anche perché dietro di esse ci sono persone che hanno motivi validi, e che Scanavino rispetta.

    Vuole però sottolineare “quella parte di ipocrisia” che è nascosta dentro la sua storia, quella di un vescovo che, dopo un suicidio che ha scosso nel profondo l'intera diocesi, è chiamato a lasciare il popolo che lo ama e che ancora non si rassegna a perderlo. Dice: “Quando qualche mese fa ho sentito che anche nella chiesa si cominciava a parlare di ‘tolleranza zero' verso i preti pedofili ho sentito un brivido lungo la schiena. Non ho nulla da nascondere. E nulla da nascondere hanno i preti della mia diocesi. Credo che la pedofilia laddove effettivamente esiste nel clero sia un male da debellare. Ma la formula ‘tolleranza zero' rischia di essere un macigno gettato addosso a coloro che per maldicenza e invidia vengono accusati di comportamenti che non appartengono al loro modo di essere o dai quali si sono faticosamente emendati dopo percorsi lunghi e pieni di sacrifici. Il suicidio di colui che nell'ultimo anno era diventato il mio segretario particolare è motivato da tante cose ma è anche, purtroppo, l'epilogo tragico di sospetti nei suoi confronti espressi a voce troppo alta”.

    Le dimissioni di Scanavino sono legate indissolubilmente a questo suicidio avvenuto il 30 novembre scorso. Luca Seidita è un giovane diacono della diocesi. Fa parte di una Fraternità di preti che Scanavino ha accettato risiedesse vicino a Orvieto. Su Seidita in diocesi girano voci malevole. In passato è stato ospite di alcuni seminari dai quali è stato dimesso. “Perché?”, si domandano alcuni. Si parla della sua presunta omosessualità. Alcuni preti diocesani sostengono che non sia degno del sacerdozio e che la data dell'ordinazione fissata dal vescovo per l'8 dicembre sia da cancellare. Lo dicono in giro. Lo dicono al Vaticano. Parte un'inchiesta. A fine novembre arriva una lettera da Roma: Seidita non deve essere ordinato prete. Il diacono non regge il rifiuto. La rupe dietro la chiesa di San Giovenale è un baratro di diversi metri. Seidita si butta giù. E Scanavino diventa agli occhi di chi non vive in città il vescovo che copre i gay, che sostiene le vocazioni di preti indegni dell'abito che indossano.

    “Non cerco colpevoli”, dice Scanavino. “Voglio solo raccontare i fatti. Il sospetto, la maldicenza, anche la tolleranza zero non tengono conto delle persone. I seminaristi, i preti, sono delle persone con storie personali diverse le une dalle altre. Io ero il vescovo di Luca. Lo conoscevo bene. Non sono un pazzo. Se ho deciso per l'ordinazione avevo i miei fondati motivi. E' facile parlare. Più difficile è prendersi carico delle persone e aiutarle a trovare se stesse. A cosa serve la fede se non a questo? Dov'erano tutti quando la mamma di Luca è arrivata a Orvieto per vedere suo figlio morto? Dov'erano quando urlava ‘assassini, assassini'. Ripeto, non voglio accusare nessuno. Solo raccontare: al funerale non sono stato tenero nemmeno con Luca. Gli ho detto: ‘Non dovevi farlo. Dovevi almeno pensare a tua madre'. Ma anche chi ha diffuso maldicenze doveva contenersi”.

    Scanavino dice che forse la sua “sfortuna” si chiama Collevalenza. Lì c'è un santuario dove una suora, madre Speranza, ha fondato una comunità che lavora per recuperare e guarire preti con problemi psichici di vario tipo. Sulla porta d'ingresso il suo benvenuto: “Il peccatore, figlie mie, diminuito il violento impeto della passione e ritornato alla ragione, sentirà il rimorso, primo testimone della verità”. Dice Scanavino: “Un giorno decido, dopo diversi colloqui con psicologi competenti, di inserire nella vita della diocesi un sacerdote che era stato da madre Speranza per quattro anni e che precedentemente era stato anche rinchiuso in carcere. Lo faccio con tutte le accortezze del caso. Lo metto in una piccola comunità di preti. Intimo loro di stare attenti, di sorvegliarlo e di valutare se effettivamente sia recuperato. Per un anno si comporta bene. Credevo di avercela fatta. Finché un vescovo emerito di una diocesi vicina non ha saputo che avevo reintegrato questo prete. E subito, per invidia o non so per quale altro motivo, forse spinto da alcuni preti della mia diocesi ai quali non va bene che ai sacerdoti usciti dal seminario regionale se ne affianchino altri di differente provenienza, ha detto che coprivo un prete pedofilo.


    La cosa è arrivata a Roma. E poco dopo, senza spiegazioni, a questo sacerdote è arrivata una lettera. Diceva che era stato ridotto allo stato laicale”.
    Le porte della curia, come sempre da quando Scanavino è in diocesi, sono aperte per tutti. La città è in fermento. Il popolo è con lui e bussa per dirglielo. 

    Due domeniche fa il duomo era stracolmo. Domenica scorsa per protesta non c'era nessuno alla messa. Venerdì tutta la città ha organizzato una fiaccolata. Il vescovo ha accolto i fedeli sul sagrato del duomo senza commentare. Il giorno successivo si è presentato alla folla vestito da frate, il suo nuovo abito. Ha detto: “Adesso basta. Non protestate più. Sant'Agostino a un certo punto della sua vita, atterrito dai suoi peccati e dalla sua miseria, voleva lasciare il proprio incarico di vescovo e ritirarsi in solitudine. Obbedì alla chiesa e rimase al proprio posto. A me viene chiesto l'opposto. Vorrei restare ma mi chiedono di ritirarmi. Non voglio essere da meno di Agostino. Voglio obbedire”.
    Difficile dire se la città ascolterà il suo “deponete le armi”. Il sindaco Toni Concina, ex manager eletto da una lista civica sorretta dal centrodestra, dice che “a fatica sta cercando di convincere la gente a non scendere a Orvieto Scalo”. Per fare cosa? “Per occupare l'Autostrada del Sole finché il Papa e il Vaticano non tornino sulla decisione presa. Accettiamo pure un allontanamento di Scanavino per qualche mese. Ma le dimissioni no. Mi spiace”.

    Scanavino sorride mentre apre la porta della sua biblioteca personale. Uno stanzone con le librerie completamente vuote. Dice: “Ho regalato tutti i miei libri alla Fraternità di don Luca. Loro sapranno che farsene. Per me questo è il tempo del digiuno, anche dai libri. In un romanzo di Susanna Tamaro una suora ricorda che la cosa importante nella vita è scoprire l'umiltà. Questa fase della mia esistenza non sarà sprecata se porterà a questa scoperta. E poi non sono solo. Ho ancora gli amici. In questi giorni ho capito bene chi sono. Sono stati due i vescovi che mi hanno telefonato per rincuorarmi. Le loro parole non le dimenticherò. Sono due vescovi di ‘appartenenze' diverse: il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, e monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino”.

    Lasciare non è facile. Soprattutto se si devono lasciare affetti e anche progetti. Tra questi l'idea di rilanciare Orvieto attraverso il suo duomo. Dice Scanavino: “La chiesa più volte ha parlato della necessità di salvaguardare le radici cristiane dell'Europa. Orvieto è la città che conserva nel suo duomo la reliquia del miracolo eucaristico di Bolsena. Grazie a questo miracolo è stata istituita la festa del Corpus Domini. Non è anche questa una delle radici cristiane della nostra Europa? Volevo fare del duomo un grande santuario eucaristico internazionale. Volevo far sì che i pellegrini venissero in massa. Orvieto è un posto unico al mondo. Questa operazione l'avrebbe salvaguardata anche economicamente. Ho detto al mio popolo, fate voi. E poi ho dato loro la mia ultima lettera pastorale. S'intitola così: ‘Si può ricominciare. Nulla è impossibile a Dio'”.