L'obbligatorietà dell'azione penale? Una finzione anche secondo la sinistra

Marco Pedersini

Un garantista doc come il verde Marco Boato ha fatto notare che gli obiettivi della riforma della giustizia “sembrano ripresi” dalla bozza che lui aveva preparato, nel 1998, per la Bicamerale presieduta da Massimo D'Alema. In realtà, nel testo che il ministro della Giustizia ha presentato oggi al Consiglio dei ministri, ci sono argomenti sostenuti in tempi non sospetti da molte altre personalità che hanno riferimenti culturali, o addirittura militanza politica, molto distanti dalle posizioni berlusconiane.

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    Un garantista doc come il verde Marco Boato ha fatto notare che gli obiettivi della riforma della giustizia “sembrano ripresi” dalla bozza che lui aveva preparato, nel 1998, per la Bicamerale presieduta da Massimo D'Alema. In realtà, nel testo che il ministro della Giustizia ha presentato oggi al Consiglio dei ministri, ci sono argomenti sostenuti in tempi non sospetti da molte altre personalità che hanno riferimenti culturali, o addirittura militanza politica, molto distanti dalle posizioni berlusconiane. L'obbligatorietà dell'azione penale, ad esempio, era stata definita “una finzione” dal professor Alessandro Pizzorno, di scuola bolognese, in un suo libro di fine anni Novanta (“Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù”, Laterza). Tanto che, scriveva Pizzorno, “visto che la discrezionalità esiste, bisogna fissare i criteri che dovranno guidare l'esercizio di quella discrezionalità”.

    “Il principio di obbligatorietà è rispettato formalmente, ma nella sostanza è chiaro che il magistrato ha la possibilità di accelerare e frenare i procedimenti”, dice al Foglio il costituzionalista Augusto Barbera, già parlamentare (e ministro per quattro giorni) del Pds. Purtroppo, aggiunge Barbera, “se ne parla solo quando c'è un conflitto di poteri, situazione che non può che falsare il dibattito”.

    Quella espressa da Barbera è una posizione molto simile a quella sostenuta due anni fa dall'ex presidente della Camera, Luciano Violante, commentando (nel suo libro “Magistrati”, Einaudi) un'osservazione di Giovanni Conso, secondo il quale “di obbligatorietà in senso pieno non è possibile parlare in concreto, data la gamma degli innumerevoli illeciti che consentono, anzi impongono al pubblico ministero di dosare il tempo e le modalità del suo intervento”. Come ha osservato Violante, la mole di lavoro permette di fatto al magistrato dell'accusa di decidere su che reati concentrarsi e quali tenere negli armadi. Così facendo, annotava l'esponente del Pd, “le scelte fondamentali di politica criminale (quali reati perseguire e quali lasciare impuniti) che nella maggioranza dei paesi è, direttamente o indirettamente, nelle mani del governo, che ne risponde al Parlamento e agli elettori, in Italia è nelle mani dei magistrati che non ne rispondono a nessuno”. “I pm e i giudici”, concludeva Violante, “decidendo discrezionalmente le priorità, svolgono perciò, in base alla Costituzione, anche una funzione di carattere strettamente politico cui non corrisponde alcuna responsabilità”.

    Ieri, quando della riforma si conosceva poco più che l'involucro, il presidente dell'Idv, Antonio Di Pietro, ha usato toni apocalittici: “Il governo vuole addirittura decidere su quali reati i pubblici ministeri possono indagare e su quali no. E' una violazione della Costituzione grossa quanto una casa e offende sia i padri costituenti sia il principio fondamentale della nostra Carta: la legge è uguale per tutti”. Poco meno di quindici anni fa, il registro tenuto dall'ex magistrato era differente. A Sansepolcro, nel corso di un seminario a porte chiuse pensato per una trentina di avvocati, Di Pietro aveva parlato di “giochini”. Riportava una giornalista presente alle lezioni: “Tra le maglie della legge i pm scovano anche il modo di insabbiare le inchieste sgradite. Di Pietro docet, è possibile persino aggirare l'obbligatorietà dell'azione penale. Il trucco si chiama modello 45; il procuratore archivia senza passare dal giudice per le indagini preliminari perché ritiene che non esista notizia di reato. ‘Come nel caso della supervalutazione Enimont', la butta sul pratico Di Pietro”.

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