Le ipocrisie del Pd sulla riforma della giustizia

Claudio Cerasa

Non bisogna essere degli elettori di centrodestra per dire che la riforma della giustizia approvata ieri dal Consiglio dei ministri contenga una notevole quantità di cose di buon senso. Per capire bene di che cosa stiamo parlando, basta concentrarsi sui quattro punti cruciali della riforma: la separazione delle carriere, la responsabilità civile per i magistrati, la fine dell'obbligatorietà dell'azione penale e la scelta di vietare, salvo casi straordinari, la possibilità di essere processati in secondo grado per coloro che sono stati già assolti all'interno di un processo di primo grado.

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    Non bisogna essere degli elettori di centrodestra per dire che la riforma della giustizia approvata ieri dal Consiglio dei ministri contenga una notevole quantità di cose di buon senso. Per capire bene di che cosa stiamo parlando, basta concentrarsi sui quattro punti cruciali della riforma: la separazione delle carriere, la responsabilità civile per i magistrati, la fine dell'obbligatorietà dell'azione penale e la scelta di vietare, salvo casi straordinari, la possibilità di essere processati in secondo grado per coloro che sono stati già assolti all'interno di un processo di primo grado. Può essere utile ripetere che, come capita purtroppo spesso in questi casi, gran parte di queste proposte sono più che condivise anche da moltissimi membri oggi all'opposizione. L'esempio classico che viene fatto in questi casi (lo fa oggi anche la Stampa, con intelligenza) per dimostrare la trasversalità di fondo delle proposte sulla giustizia, è la riproposizione della vecchia bozza Boato: bozza formulata dall'ex parlamentare dei Verdi nel 1996 per la famosa commissione Bicamerale presieduta allora da Massimo D'Alema. Lo stesso Boato oggi dice che “questa riforma non è scandalosa, non stravolge i poteri, né implica una subordinazione dei pm” che “hanno il diritto di essere ascoltati nelle commissioni competenti e di intervenire per modificarla in sede parlamentare oltre che con i decreti attuativi ma non è giusto sparare come stanno facendo in queste ore”.

    Senza voler ricordare in modo ossessivo la benedettissima, e sfortunatissima, commissione Bicamerale di D'Alema in fondo è sufficiente sfogliare il Foglio dell'ultimo anno per capire che molti dei punti messi a fuoco dal ministro Alfano sono argomenti sui quali anche il centrosinistra fino a pochi mesi fa si interrogava con una certa serietà. Ricordate? L'undici aprile di un anno fa il responsabile della giustizia del Pd Andrea Orlando – giovane spezzino della stessa scuola migliorista in cui si è formato anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – sul nostro giornale ha accettato con coraggio di parlare di come il Pd avrebbe voluto rivoluzionare la giustizia penale di questo paese. “Riformare la giustizia – aveva scritto Orlando – è una delle priorità dell'Italia, e l'argomento va affrontato con responsabilità e con misura”. La giustizia, lo sanno tutti, è da anni una delle grandi emergenze dell'Italia e dire che oggi non sia una priorità perché il presidente del Consiglio ha i suoi dannati problemi con la giustizia è dire una cosa falsa e anche scorretta.

    Che cosa diceva Orlando un anno fa? Diceva che il Partito democratico era sinceramente disponibile “a una verifica concreta dei giusti tempi del processo; a una seria riflessione per la ridefinizione dell'obbligatorietà dell'azione penale; a una riforma del sistema elettorale del Csm che diluisca il peso delle correnti della magistratura associata, rafforzandone l'autorevolezza; alla discussione sulla necessaria distinzione dei ruoli tra magistrati dell'accusa e giudici, e a un ragionamento sulla efficacia delle attuali azioni disciplinari nel mondo della magistratura”. Obbligatorietà dell'azione penale, distinzione dei ruoli tra magistrati dell'accusa e giudici, efficacia delle azioni disciplinari e persino una cosa che Alfano non ha neppure inserito, al momento, nella riforma: diluire il peso delle correnti nella magistratura associata. Chiaro no?

    Per entrare nel merito delle proposte sulla giustizia ci siano alcune piccole e grandi ipocrisie che andrebbero chiarite con urgenza. Primo punto: giudicare i magistrati che sbagliano non significa punirli, significa giudicarli, e il tema della sostanziale impunità dei magistrati che commettono degli errori nel nostro paese è un problema che l'Italia conosce da molto tempo: dai tempi di Tortora, dai tempi di quel famoso referendum (era il 1987) in cui gli italiani furono chiamati a votare per decidere se introdurre o no una forma di responsabilità civile per i giudici. Come finì quel referendum? Con l'ottanta per cento dei votanti che disse di sì: i magistrati, se toppano, devono essere puniti. (Dal 2001 al 2009, per capirci, è stato calcolato che in media solo due volte su cento un magistrato che commette un errore paga per quell'errore). Sugli altri punti della riforma, e in particolare sui tempi lunghi dei processi, il discorso è più complicato: anche il Pd sostiene da tempo che sia necessario ridurre i tempi del processo e chiedere di rafforzare e migliorare il primo grado per evitare che un processo vada avanti per troppi anni credo che sia una cosa più che sensata. Sulla fine dell'obbligatorietà dell'azione penale e sull'introduzione di una graduatoria delle priorità da perseguire prevista dalla legge ci sono alcune perplessità (la graduatoria, secondo alcuni, dovrebbe essere approvata almeno dai due terzi delle camere) ma non sì può non essere sostanzialmente d'accordo con quanto detto ieri dal ministro Alfano: “Un principio sacrosanto come l'obbligatorietà dell'azione penale è stato trasformato da alcuni pm nel suo contrario: cioè nell'assoluta discrezionalità di perseguire i reati”. Il ministro Alfano dice una cosa fuori dal mondo? Beh, leggete ancora quanto scritto l'anno scorso ancora da Orlando sul Foglio: “Sull'esercizio dell'azione penale, poi, sarebbe matura una riflessione sulla rimodulazione dell'obbligatorietà, attraverso l'individuazione di priorità che non limitino l'indipendenza dei pm”.

    Per venire invece all'ultimo punto, quello sulla separazione delle carriere, nessuna persona di buon senso può negare come sia surreale che nel nostro paese chi deve giudicare un reato (il giudice) non sia ben distinto, in modo chiaro, da chi rappresenta l'accusa (ovvero il magistrato) e che è poco coerente che il giudice che ti deve giudicare e il magistrato che ti deve accusare facciano parte di una medesima struttura organizzativa (struttura che tra l'altro ordina le carriere di entrambi). Detto in modo più semplice, con la legge così com'è oggi, l'avvocato del difensore non può realisticamente avere la certezza di trovarsi di fronte al giudice nelle stesse condizioni in cui si trova il pubblico ministero.

    Molti osservatori, a questo proposito, tendono spesso a dimenticare che il sistema processuale italiano dal 1989 si chiama “processo accusatorio”, e non più inquisitorio, e che dunque è la legge stessa che pone come prerogativa del nostro sistema giudiziario una netta separazione tra il ruolo del giudice e quello dell'accusa. Questo non è solo un pensiero personale ma è anche quello che pensano davvero molti esponenti dell'opposizione che in modo un po' surreale, oggi negano gli stessi problemi che fino a poco tempo fa erano stati loro stessi a tirare fuori coraggiosamente. Tante persone che insomma la pensano esattamente come Marco Boato ma oggi non hanno proprio il coraggio di dirlo.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.