La grande onda prima della calma
Alle dieci del mattino si vide avanzare dal largo una grande onda che penetrò nel porto della città di Shimoda. Il mare si alzò sulla spiaggia in un muro immane. Seguì una seconda onda. Quando alle dieci e un quarto le due onde si ritirarono della città di Shimoda non restarono in piedi che i muri di un tempio ancora in costruzione.
Leggi I giapponesi fatalisti ripetono “shikataganai”, non ci si può fare nulla
Alle dieci del mattino si vide avanzare dal largo una grande onda che penetrò nel porto della città di Shimoda. Il mare si alzò sulla spiaggia in un muro immane. Seguì una seconda onda. Quando alle dieci e un quarto le due onde si ritirarono della città di Shimoda non restarono in piedi che i muri di un tempio ancora in costruzione. Onde altissime si susseguirono a intervalli di dieci minuti, per più di quattro ore, fino alle due e mezza del pomeriggio. Poi sulla devastazione tornò la calma. Era il 23 dicembre 1854, quindici giorni prima del Natale ortodosso. L'equipaggio della Diana contava di essere a casa per il 7 gennaio. La fregata russa in rada girò su se stessa come una trottola, andò a sbattere per cinque volte sul fondo del mare, poi naufragò.
Se abbiamo una descrizione del disastro fu perché non tutti i marinai affogarono. I pochi sopravvissuti, ai quali dobbiamo il racconto, furono i primi europei ad assistere a uno dei grandi cataclismi che sconvolgevano il Giappone. Un anno e mezzo prima gli occidentali, americani questa volta, al comando del commodoro Perry, avevano portato dal mare un altro cataclisma dagli effetti più profondi: avevano costretto il Giappone ad aprirsi agli stranieri, a incamminarsi sulla strada della modernità.
Ai cataclismi naturali invece i giapponesi erano preparati. Costruivano le loro case con pareti di carta, perché non rovinassero sulla testa degli abitanti a ogni terremoto. Con il mare agitato avevano familiarità. Delle onde scomposte avevano fatto un motivo decorativo: le loro scatole di lacca, le tsube, le else della catana, la famosa spada dei samurai, erano decorate da mari in tempesta, agitati da una miriade di onde. Il più famoso foglio di Hokusai, il più celebre autore degli ukyo-e, delle immagini del mondo fluttuante, è intitolato la “Grande onda”.
Fa parte di una serie di trentasei vedute del vulcano Fuji, che ha avuto sull'arte europea un'influenza tanto profonda quanto la scienza europea ha avuto sulla vita giapponese. Come in molti altri fogli della serie, il vulcano, il soggetto che dà il titolo alla serie, è lontano, sullo sfondo, fuori centro. Tutto il campo è occupato in primo piano da un'onda colossale che sta per abbattersi su tre imbarcazioni fragili, a remi, che sembrano andarle in bocca. Tutto quello che possono fare gli equipaggi è ritirarsi a poppa, per ritardare della frazione di un secondo la fine. Sul realismo dell'immagine si fa un gran discutere. La scena non è realistica, dicono gli esperti di mare, che a una scena simile non hanno verosimilmente potuto assistere, non più di quanto verosimilmente abbia potuto assistervi lo stesso Hokusai. Ma qualcosa di molto realistico, di molto giapponese, nella scena c'è. Si sente già la calma, la normalità che tornerà appena l'onda sarà passata, appena il mare tornerà a essere portatore di vita e di ricchezza. Per un po' qualche relitto galleggerà sulle onde placide, poi il sacro Fuji tornerà ad apparire, sempre fuori centro, sempre in secondo piano, ma questa volta magari dietro la ruota del carro di un contadino che è tornato al lavoro.
Leggi I giapponesi fatalisti ripetono “shikataganai”, non ci si può fare nulla
Il Foglio sportivo - in corpore sano