Gianni e la vita
Bisogna guardare la grazia stranita con cui Gianni Di Gregorio fa il baciamano alla badante, dà il braccio alle amiche della madre (che lo chiama “giannicaro” mentre gli chiede di servire champagne e tramezzini alle ottantenni signore del poker), porta il caffè a letto alla moglie, fa una carezza alla figlia e osserva la fidanzata di un tempo che, invece di buttarsi fra le sue braccia, si è addormentata sul divano.
Bisogna guardare la grazia stranita con cui Gianni Di Gregorio fa il baciamano alla badante, dà il braccio alle amiche della madre (che lo chiama “giannicaro” mentre gli chiede di servire champagne e tramezzini alle ottantenni signore del poker), porta il caffè a letto alla moglie, fa una carezza alla figlia e osserva la fidanzata di un tempo che, invece di buttarsi fra le sue braccia, si è addormentata sul divano. E' finzione cinematografica, è il personaggio del secondo film “Gianni e le donne”, che si chiama come lui, vive dove vive lui, ha una figlia che è proprio sua figlia ed è schiavizzato da una madre gagliarda proprio come è stato schiavizzato lui a lungo, ma non è soltanto questo: è un cortocircuito fra il film e la vita (e la difficoltà a lasciarsi celebrare) che offre la quasi certezza che Gianni Di Gregorio sia proprio così, come si è dipinto a partire dal “Pranzo di ferragosto” (le vecchiette, in particolare Donna Valeria, sono diventate star assolute e, scherza con dolcezza Di Gregorio, “fanno una vita meravigliosa, molto più bella della mia”).
Qualcuno gli ha detto che in questo secondo miracoloso film – miracoloso perché è difficile fare il bis, raccontando la vita di un sessantenne prepensionato che corre appena mamma lo chiama al cellulare e che è diventato, per le altre donne, un oggetto inanimato, un anziano da giardinetti – lui è stato troppo feroce con se stesso, e Gianni Di Gregorio ha riso perché è vero e perché è evidentemente abituato all'autoferocia. “Io solo questa ottica conosco, quella del succube”, ha detto in un'intervista a Serena Dandini a “Parla con me”: lei gli faceva un sacco di complimenti, cercava giustamente di monumentalizzarlo, e lui ringraziava beneducato, stupito, schivo, e raccontava di sua madre, che “riemerge dall'inconscio” (il suo amico analista ride e dice che è come se fosse ancora viva, e infatti anche in questo secondo film ha una parte importantissima, saltata fuori da sé, mentre stavolta doveva essere un piccolo ruolo). Esordiente stagionato si definì ai tempi del “Pranzo di Ferragosto”, sessantenne che ci ha messo trentacinque anni di cinema (come sceneggiatore, perfino di “Gomorra”, ma anche assistente alla regia, tecnico, operaio, portatore di caffè, autista) a capire che era arrivato il momento di buttarsi.
Del resto il soggetto del “Pranzo di Ferragosto” era pronto dal 2000, ma nessuno faceva a pugni per produrre un film con protagoniste tra i novantadue e gli ottantaquattro anni e un pesce pescato nel Tevere. Ora che la consacrazione è avvenuta, ora che “Gianni e le donne” è andato alla Berlinale dove Gianni Di Gregorio ha messo un vecchio vestito nero, si corre il rischio che l'arte e la vita si scollino e Di Gregorio abbandoni il proprio sé maldestro, disilluso ma ottimista (“i sentimenti vincono sempre”) e non aggressivo, il bambinetto a cui regalarono per la Comunione i Canti di Giacomo Leopardi, per diventare un divino mondano a proprio agio nelle folle. Ma l'immagine di lui in pigiama a righe (e canottiera sotto) che si sveglia nel letto singolo in un post sbornia da champagne (per finire le bottiglie da centocinquanta euro che la madre lascia aperte a metà e poi svaporano), apre la finestra e aspira lunghe boccate di sigaretta, esce in giardino sempre in pigiama e si stiracchia, si massaggia un inizio di cervicale, esce a raccogliere il giornale, si china ed ecco una fitta alla schiena, mentre i giovani scattanti gli passano accanto facendo jogging e lui non li disprezza ma prova ad accennare qualche passo di corsa con la sigaretta penzoloni, sembra corrispondere perfettamente alla vita vera. Barney Panofsky avrebbe capito.
Gianni Di Gregorio non teme di dire che l'elemento autobiografico è reale (nella reale autobiografia, raccontata in un'intervista, ci sono perfino le figlie e la moglie che vanno via di casa esasperate dalla sua dedizione all'anziana mamma malata, “così mi sono trovato a casa con mia madre, le badanti, tutta una storia faticosissima che mi rallentava il lavoro, non mi potevo allontanare che subito dovevo risalire sull'aereo da cui ero appena sceso”) e che la proposta indecente dell'amministratore di condominio di occuparsi anche di sua madre, in cambio di un aiuto con le morosità (reali) non era affatto immaginaria. Lui in uno scatto di dignità rifiutò, ma poi cominciò a pensare a cosa sarebbe successo se avesse accettato. “Giannicaro, quando mai hai avuto delle risorse?”, gli dice Donna Valeria, “Ma cosa vuoi tutelare Gianni, sei tu da tutelare”, gli dice l'amico che lo sprona a farsi l'amante, mentre lui si sente invisibile, “mi posso anche dare fuoco”. Nella sua visione della realtà la maggior parte degli uomini sono così, solo che “millantano, raccontano un sacco di balle”. Lui invece racconta la verità impietosa, ma con pietà e grazia (“alla natura umana io ci credo”) e poi se ne va dalla trasmissione televisiva, sorridendo e con il bicchiere in mano.
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