La controffensiva di Gheddafi
Che cosa vogliono i ribelli libici? Ecco le loro risposte (e un sospetto)
L'avanzata delle forze di Muammar Gheddafi continua, destinazione Bengasi, mentre il colonnello mostra in tv un ribelle pentito, ipotizzando per lui e per chi si pente un'amnistia. Dalla loro roccaforte i rivoltosi rispondono che andranno fino alla fine, e la comunità internazionale, così riluttante a riconoscerli come interlocutori, inizia ad aprirsi a missioni diplomatiche alla luce del sole per prendere i contatti. Ma il tempo stringe, le navi cariche di rifugiati sono partite verso l'Italia, una è stata fermata su richiesta del Viminale, ma fonti dicono che in viaggio ce ne sono altre ventuno.
L'avanzata delle forze di Muammar Gheddafi continua, destinazione Bengasi, mentre il colonnello mostra in tv un ribelle pentito, ipotizzando per lui e per chi si pente un'amnistia. Dalla loro roccaforte i rivoltosi rispondono che andranno fino alla fine, e la comunità internazionale, così riluttante a riconoscerli come interlocutori, inizia ad aprirsi a missioni diplomatiche alla luce del sole per prendere i contatti. Ma il tempo stringe, le navi cariche di rifugiati sono partite verso l'Italia, una è stata fermata su richiesta del Viminale, ma fonti dicono che in viaggio ce ne sono altre ventuno: e ora che sul campo Gheddafi mostra tutta la sua forza – non l'aveva mai persa, in realtà – la diplomazia deve trovare altri strumenti di pressione. Di certo c'è che l'obiettivo principale è capire chi sono i ribelli, e che cosa vogliono (oltre alla fine del regime di Gheddafi). I segnali sono contraddittori, alcuni chiedono un intervento, come il leader più conosciuto all'estero, l'ex ministro Mustafa Abdul Jalil, altri un sostegno umanitario e militare (armi), tutti guardano all'Europa come interlocutore principale e soprattutto tutti ci tengono a sottolineare – in modo tanto enfatico da risultare quasi sospetto – che al Qaida non c'è in Libia e che l'estremismo islamico è un'invenzione di Gheddafi.
Tra i corridoi del tribunale di Bengasi, quartier generale dei ribelli, avvocati e giudici lavorano assieme a giovani catapultati in prima fila a parlare di amministrazione cittadina, di relazioni internazionali, di islam. Issam Gheriani è uno dei volti più noti al tribunale, uno psicologo diventato portavoce della protesta. Per lui, America ed Europa hanno pensato ai propri interessi, “succede ovunque”, dice pragmatico, “tutti hanno fatto affari con Saddam Hussein, come con Gheddafi”. La maggior parte dei libici ha festeggiato la caduta dell'ex rais iracheno, ma “non per la fine che ha fatto l'Iraq” (una fine tra l'altro determinata anche dai tanti islamisti libici che andarono a combattere con al Qaida contro le forze americane).
La comunità internazionale è preoccupata, teme che il caos apra la porta all'estremismo. I ribelli fanno però notare – conoscono bene le paure all'estero – che le principali città dell'est della Libia sono sotto controllo e insistono sul carattere laico della rivoluzione. Non c'è nessun religioso né rappresentante di movimenti islamisti tra i 31 membri del nuovo Consiglio nazionale, sottolineano. “La Libia è sempre stata moderata”, dice Gheriani. Per strada però ci sono poche donne, per la maggior parte velate. Eppure, insiste Gheriani e confermano anche attiviste vicino ai ribelli, le donne che studiano e lavorano in Libia sono più degli uomini. Al tribunale di Bengasi, la maggior parte degli avvocati è donna, dice Selwa Bugaighis, del consiglio civico locale. E' un avvocato ed è una delle poche donne non velate. “C'è incomprensione sull'hijab, il velo islamico – continua Gheriani – Non è un simbolo di estremismo e non è obbligatorio. Qui è più un ‘dress code', come la tunica per gli uomini”. “La Libia è una società laica, c'è un po' di tutto – dice Ayman Gheriani, 31 anni – Io prego e digiuno, ma viaggio anche all'estero ed esco con le ragazze. Non c'è una contraddizione. Seguiamo tutti l'islam e ciò che ci è stato lasciato dal nostro Profeta, il Corano, ma non siamo estremisti e non vogliamo certo un regime teocratico”.
Muftah, 30 anni, professore di inglese, è uno dei giovani che ogni giorno si ritrovano al tribunale per aiutare i membri del comitato del 17 febbraio. Spera ancora in una “no fly zone” con l'appoggio degli Stati Uniti: “Il presidente Obama si è comportato da amico anche prima della rivoluzione”. Ma con l'Europa “ci sono interessi comuni, noi vendiamo il petrolio e loro ci forniscono la tecnologia”, spiega Muftah, sottolineando la necessità che i governi stranieri intervengano per fermare le violenze, ma è contrario a un intervento militare, come accaduto in Iraq nel 2003. “Saddam era un dittatore e si è meritato quello che gli è successo. L'intervento militare, però, è stato brutale, lungo, e non ha portato alla creazione di istituzioni. Gli iracheni hanno vissuto in un caos completo. Per questo non vogliamo interventi stranieri qui”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano