L'arte del copione
"A kiss on the hand / May be quite continental / But diamonds are a girl's best friend". Così cantava Marilyn Monroe, e qualche scena dopo – sempre nel film “Gli uomini preferiscono le bionde”– coscialunga Jane Russell con la parrucca color platino. Lo stesso tocco di distinzione “continentale”, da intendersi come “europeo”, è la qualità che l'Imperial Bulldog Production, con sede a Londra, richiede al romanziere quasi debuttante Christopher Isherwood. Ha in progetto di adattare per lo schermo la commedia musicale intitolata “Prater Violet”, serve qualcuno provvisto di “un certo gusto continentale”.
"A kiss on the hand / May be quite continental / But diamonds are a girl's best friend". Così cantava Marilyn Monroe, e qualche scena dopo – sempre nel film “Gli uomini preferiscono le bionde”– coscialunga Jane Russell con la parrucca color platino. Lo stesso tocco di distinzione “continentale”, da intendersi come “europeo”, è la qualità che l'Imperial Bulldog Production, con sede a Londra, richiede al romanziere quasi debuttante Christopher Isherwood. Ha in progetto di adattare per lo schermo la commedia musicale intitolata “Prater Violet”, serve qualcuno provvisto di “un certo gusto continentale” (così nella traduzione Adelphi, “La violetta del Prater”, da poco in libreria con una copertina viola e la foto di un regista che dirige con i calzoni alla zuava due attori avvinghiati su uno sfondo di palme). La telefonata d'ingaggio va subito al dunque: “Lei parla tedesco, non è vero? E conosce Vienna benissimo. Proprio quello che ci vuole”. A nulla serve precisare che Isherwood ha abitato a Berlino, non a Vienna, che non ha mai lavorato per il cinematografo, che non ha mai sentito nominare il regista austriaco in carica, tale Friedrich Bergmann, a Londra mentre Hitler medita l'annessione. Viene convocato d'urgenza, invitato al ristorante, messo a parte del sogno che il regista coltiva da una vita: “Una ‘Tosca'. Con la Garbo. Senza musica, naturalmente. Così com'è, nuda e cruda. E sapete chi voglio che me lo scriva? Somerset Maugham. Se non potrò avere Maugham, non ne farò nulla”. Nell'attesa, si accontenta di Isherwood, molto meno famoso ma più cedevole, a dispetto dello snobismo che gli fa dire subito “sono molto occupato”. Poi pensa al capitolo undicesimo, dove si trova impantanato, e molla le difese. Lo fece, nella realtà, per collaborare a “Little Friend”, film inglese del 1934 diretto da Berthold Viertel.
Avanziamo sul periglioso terreno degli scrittori che cedono alle lusinghe del cinema e soprattutto dei suoi cospicui assegni, riservandosi alla prima occasione di azzannare la mano che li nutre. L'Italia è all'avanguardia fin dagli anni Dieci del Novecento, con una lista di nomi che va da Luigi Capuana e Grazia Deledda, passando per Matilde Serao e Federico De Roberto. Tutti con l'atteggiamento che lo storico del cinema Gian Piero Brunetta chiama “L'attrazione fatale, ovvero l'odore dei soldi”. Leggi: prestazioni a pagamento di cui gli scrittori cercheranno di cancellare con cura le tracce. Giovanni Verga cede i suoi soggetti rusticani attraverso un'amica che fa da schermo, e supplica: “Vi prego e vi scongiuro di non dire mai che io abbia messo le mani in questa manipolazione culinaria delle cose mie”. Batte bandiera italiana anche il primo (quasi) romanzo sul cinema, “I quaderni di Serafino Gubbio operatore” a firma Luigi Pirandello. Che scorda la lettera scritta nel 1914 a Nino Martoglio. Molta invidia per i successi cinematografici dei colleghi e la manina stesa: “Sono disperato per 500 lire che mi urgono per bisogni immediati e non so come e dove trovare. Potresti procurare di farmele avere per un lavoro che potrei fare subito a richiesta?”. Sorvola anche sulla splendente carriera da star immaginata per la musa attrice Marta Abba (il tentativò andò male, il commediografo ricominciò a sputare sul cinema).
Se dobbiamo dare retta ai “Quaderni”, gli intellettuali in pellegrinaggio verso la casa di produzione Cosmograph vengono nobilmente descritti: “Scrittori illustri, commediografi, poeti, romanzieri vengono qui, tutti al solito proponendo una ‘rigenerazione artistica' dell'industria”. Più realista Giuseppe Petronio che parla di prostituzione, in senso tecnico: “Il cinema, scaricando su di sé le basse voglie del volgo, poteva consentire al teatro – e alle altre arti, aggiungiamo noi – di mantenere intatta la verginità artistica. Il che ovviamente non doveva impedire allo scrittore di fornicare qualche volta col cinema a fini di rinomanza o di guadagno. Proprio come il disprezzo per la prostituta non impediva al borghese di fornicare con lei”. Gli unici a vantarsi del basso commercio con i cinematografari erano Gabriele D'Annunzio e Guido Gozzano: due su cui possiamo sempre contare per uno scintillìo di intelligenza o di originalità.
Sul fronte hollywoodiano, centinaia sono gli aneddoti che mettono in cattiva luce i produttori, ignoranti come talpe, descrivendo gli scrittori come vittime. Quando Francis Scott Fitzgerald tornò dalla sua prima volta in California, H.L. Mencken (padrino della frase mille volte citata: “Nessuno è mai andato in bancarotta per aver sottovalutato il gusto del pubblico”) lo accolse con un'oscena benedizione: “Grazie a Dio ne sei uscito vivo. Ero terrorizzato per te. Se Los Angeles non è il buco del culo della civiltà, non capisco niente di anatomia. Se vuoi tornarci e bruciare ogni cosa, conta su di me”. Un bell'incendio purificatore conclude anche “Barton Fink”, il film dei fratelli Coen su un commediografo che somiglia tanto a Clifford Odets e si aggira in compagnia di un tizio alcolizzato come Francis Scott Fitzgerald. Che a Hollywood torna nel 1937, quando la sua carriera di romanziere è in declino, la moglie Zelda pazza da manicomio, la Grande depressione fa ancora sentire i suoi effetti. Prende alloggio nei Garden of Allah, complesso residenziale voluto dall'attrice Alla Nazimova negli anni Venti – l'esotica acca fu aggiunta in seguito – e lavora per la Mgm. La carriera da sceneggiatore non decolla, il materiale per “Gli ultimi fuochi” ottimo e abbondante. Serve per riconoscere a Hollywood quel che è di Hollywood, evitando le vendette personali e trattando gli sceneggiatori venuti dalla letteratura con il dovuto cinismo (se qualcuno vuole convincervi del contrario, ditegli di leggere il romanzo, e poi ne riparliamo).
Dietro al romanziere George Boxley, convocato nel terzo capitolo del romanzo (rimasto incompiuto per morte dell'autore) dal tycoon Monroe Stahr, non è difficile riconoscere il britannico Aldous Huxley. Era partito per Hollywood pieno di speranze: darà il meglio di sé ingoiando pasticche di Lsd e scrivendo pagine liriche sulla piega dei suoi pantaloni di flanella grigia. Boxley si lamenta: “I due scribacchini incaricati di lavorare con me hanno un vocabolario di cento parole”. Stahr ribatte che sono necessari, giacché le ultime pagine di copione firmate dal solo Boxley erano: “Una conversazione, botta e risposta. Una conversazione interessante ma nulla più”. Il romanziere furioso contrattacca: “Io credo che voi gente del cinema non leggiate mai niente. I protagonisti stanno duellando, mentre si svolge la conversazione. Alla fine uno dei due cade nel pozzo e deve essere tirato su con il secchio”.
Pausa. Prima che l'ultimo dei romanzieri prestati al cinema italiano e l'ultimo nostalgico frequentatore di cineforum applaudano convinti – queste sì che sono parole sante, fategliela vedere ai quei cafoni che dirigono l'industria del cinema (aggiungere insulti a piacere) – parte il secondo round. Dove vince il migliore, e il migliore non è – ripetiamo “non è” – lo sceneggiatore che non va mai al cinema. E' il produttore, che scodella lì per lì l'inizio di una gran storia: “Siete in ufficio dopo una giornata di lavoro. Una graziosa stenografa entra nella stanza. Si sfila i guanti, apre la borsetta, rovescia il contenuto su un tavolino. Due monetine d'argento, un nichelino, una scatola di fiammiferi. Prende i guanti neri, si avvicina alla stufa, mette dentro i guanti. Accende il fiammifero e li brucia. Suona il telefono, la ragazza risponde e dice in tono deciso ‘non ho mai posseduto un paio di guanti neri in vita mia'”. “Avanti”, implora il romanziere, che completamente idiota non è. “Avanti – diciamo noi – cosa succede adesso? “Non lo so”, risponde il magnate Monroe Stahr. “Stavo solo facendo del cinema”. (Non fanno del cinema invece, o lo fanno alla maniera ingenua di George Boxley, gli sceneggiatori di “Il gioiellino”– incluso Gabriele Romagnoli, in prestito dal giornalismo e dalle patrie lettere – quando ficcano in un dialogo la parola “tycoon”, solo per far capire che la ragazza ha studiato all'estero).
Ben si accoppia con questa scena di Francis Scott Fitzgerald la pagina di “La violetta del Prater” dove Christopher Isherwood fa dire a un montatore, rivolto a Isherwood medesimo o almeno alla sua controfigura romanzesca. La tirata è un po' lunga, ma merita di essere ricopiata per intero: “Non riesco a capire cosa diavolo ti immagini di fare qui. Ti illudi forse di avere venduto la tua anima? Voi scrittori avete pose così maledettamente romantiche. Tu credi, per esempio, di essere superiore alle miserie artistiche del cinematografo, credi che sia un'arte inferiore. Cambia idea. E' il cinema che vale molto più di te. Noi non abbiamo bisogno di sgualdrine romantiche ottocentesche. Abbiamo bisogno di tecnici. Grazie a Dio io sono un montatore, conosco il mio mestiere. E sono maledettamente bravo. Non tratto la pellicola come un pezzo del mio intestino. Bé, lascia che ti dica una cosa. Un film non è un dramma, non è letteratura; un film è matematica pura. Non capirai mai una cosa simile finché campi”.
Serviva la perfida intelligenza di Mordecai Richler per andare a scovare la tirata, e commentarla in “Un mondo di cospiratori” (che rimanda al titolo di Isherwood “Tutti cospiratori”). Aggiunge che Aldous Huxley “era arrivato a Hollywood per guadagnare soldi facili, fare la cresta sul conto spese, raccontare da vecchio nell'autobiografia che si era venduto l'anima”. Isherwood assieme a Huxley andrà a Hollywood, con un po' di puzza sotto il naso in meno (era uno che quando gli chiesero perché si era stabilito a Berlino diceva la verità: “L'ho fatto per i giovanotti”, e perché lì non c'erano le leggi che condannarono Oscar Wilde). Come Huxley si lasciò attrarre dal peggio della California, che non è il cinema bensì la fascinazione per le filosofie orientali. Ai tempi della “Violetta del Prater” era ancora un ragazzo spiritoso, in grado di afferrare la miscela di artigianato e cialtroneria che sta dietro certi film. “Il cinema – spiega il regista Friedrich Bergmann – è una macchina infernale per chi lo fa. Ed è una sinfonia per lo spettatore: ogni movimento deve essere scritto in una certa tonalità”.
Isherwood acconta i primi tempi del sonoro, quando le macchine da presa mandano un rumore d'inferno: “Hanno avvolto la macchina in una specie di coperta imbottita, che la fa somigliare a un barboncino con il cappottino invernale”. Racconta il panico generato dalla nuova invenzione, che leva di mezzo le attrici con la voce gracchiante e la dizione imperfetta, in scene che sono il doppio romanzesco di “Cantando sotto la pioggia”. Nell'epoca del muto, i registi “urlavano i loro ordini con il megafono per farsi sentire tra il martellare dei falegnami; e turbe di comparse istupidite assordate abbrutite affamate venivano spinte qua e là da giovani e aggressivi aiuto registi, che abbaiavano loro come cani pastori”. Ora nessuno osa più fare previsioni sul cinematografo: “Il Sapore, forse, l'Odore o la Stereoscopia, o chi sa quale diavoleria che dallo schermo invada la platea”.
La violetta del Prater si chiama Toni, vende mazzolini di violette prima della guerra '15-'18 al parco divertimenti di Vienna. Incontra un bel giovanotto vestito da studente, tale Rudolf, che si rivelerà essere il principe ereditario di Borodania (nella mappa del cinema dei quegli anni, sta accanto alla Ruritania del prigioniero di Zenda, e alla Sylvania del “Principe consorte” di Ernst Lubitsch). “Non si dia pensiero delle scene. Scriva solo dialoghi. Crei atmosfera. Dia alla macchina qualcosa da ascoltare e da guardare”, chiede il regista all'ultimo arrivato. Più facile a dirsi che a farsi: “L'opinione che avevo di me come scrittore si ridusse notevolmente”, confessa Isherwood. “Non riuscivo a trovare il tono giusto. Scrissi una pagina di dialogo che non aveva né capo né coda al solo scopo di far sapere che un personaggio se la intendeva con la moglie di un altro. Quanto a Rudolf, il principe in incognito, parlava come il minimo denominatore comune delle più scipite commedie musicali ch'io avessi mai visto o sentito”.
“La violetta del Prater” viene terminato e proiettato, anche a New York dove lo giudicano “abbastanza bello per un film inglese”. Il montatore della tirata antiromantica lo ritiene un insulto all'intelligenza di un bambino di cinque anni, oltre che profondamente controrivoluzionario. Deve ammettere però che i lavoratori lo preferiscono senz'altro a un film russo che racconta il trangolo amoroso tra una ragazza, un giovanotto, un trattore agricolo. L'austriaco (fittizio) Friedrich Bergmann strappa un contratto a Hollywood, dove si trasferisce nel 1935.
Il vero Christopher Isherwood, in California da qualche anno e già induista quando “La violetta del Prater” viene pubblicato nel 1945, riapparirà nel cinema molti anni dopo. Quando Bob Fosse (dopo un dramma celebrato dalla critica, una pellicola di scarso successo, un fortunato musical a Broadway) ricaverà dai racconti di “Addio a Berlino” il film “Cabaret”, con Liza Minnelli, Michael York, il grandioso maestro di cerimonie Joel Grey, l'ereditiera Marisa Berenson che dopo una sveltina sul divano chiede all'amica: “Ma è vero amore o solo passione dei sensi?” (a domanda cretina, l'amica risponde con un'altra domanda, assai più saggia: “Se ti piace, che differenza fa?”). Sally Bowles, modellata su una signorina che si chiamava Jean Ross, nel racconto è già incantevole. I calzoncini con giarrettiere di Liza Minnelli, le unghie verde smeraldo, l'uovo come dopo sbronza nel bicchiere del dentifricio, l'urlo sotto il ponte ferroviario completeranno l'opera. “I'm a camera”, diceva Isherwood a proposito del suo modo di scrivere, intendendo il più nobile obiettivo della macchina fotografica. Il cinema, cacciato come lavoro alimentare, si è preso tardivamente la sua bella rivincita.
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