Il voto sulla questione libica
Ora che Obama reagisce si capisce com'è inattivo il mondo senza America
La primavera araba – che con le rivolte in Libia, in Bahrein, in Yemen ha perso il suo slancio pacifico: molti analisti sostengono che ormai sia “over”, passata, è arrivato l'autunno – ha mostrato al mondo com'è la politica internazionale quando gli Stati Uniti rinunciano alla loro leadership. Indecisa, divisa, inefficace, lenta.
La primavera araba – che con le rivolte in Libia, in Bahrein, in Yemen ha perso il suo slancio pacifico: molti analisti sostengono che ormai sia “over”, passata, è arrivato l'autunno – ha mostrato al mondo com'è la politica internazionale quando gli Stati Uniti rinunciano alla loro leadership. Indecisa, divisa, inefficace, lenta. Ieri infine l'Amministrazione Obama ha abbandonato la riluttanza nei confronti della questione libica e, con piglio aggressivo, si è presentata al Consiglio di sicurezza dell'Onu chiedendo di andare oltre alla “no fly zone” e mettere a punto blitz mirati immediati sui carri armati e sull'artiglieria pesante delle forze del colonnello. E' bastato l'annuncio che l'iniziativa internazionale ha trovato nuovo stimolo: il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha detto: “L'Alleanza è pronta a proteggere la popolazione civile se ce n'è dimostrabile necessità, con una chiara base legale e con un forte sostegno regionale”.
I francesi hanno dichiarato poco prima del voto all'Onu – secondo alcune fonti nessun paese era intenzionato a porre il veto – che erano pronti a partire già ieri notte con gli aerei per difendere i ribelli.
L'Amministrazione Obama, ispirata dai realisti – mai visti tanti di loro imperversare sulle pagine dei giornali – e dal dipartimento di stato (realista), aveva finora deciso di lasciare l'iniziativa di un'azione libica all'Europa, alla Nato, ai paesi della regione, all'Onu, cioè al multilateralismo. Il vuoto di leadership è stato così riempito da Gheddafi, che ne ha approfittato per arrivare fino a Bengasi a fare giustizia dei rivoltosi, uno a uno.
Chi sostiene l'attendismo obamiano ha trovato molte giustificazioni: la “sindrome irachena”, cioè l'allergia a una campagna di guerra unilaterale, ancorché giusta; l'“intervention fatigue”, cioè la stanchezza di un paese che è in guerra da troppi anni e con troppi drammi; la certezza che l'Europa, vicina di casa della Libia, avesse a disposizione mezzi e intelligence superiori a quelli americani, e che potesse usarli meglio; il mantra adottato anche in Europa del “lasciate la rivoluzione libica ai libici”, cioè la paura che le rivolte si ritrovassero addosso l'etichetta “made in occidente”. Ma la mancanza di iniziativa ha portato un altro risultato, sottolineato da Daniel Henninger sul Wall Street Journal: il fallimento dell'internazionalismo (oltre che il collasso dell'establishment democratico moderno e della sua politica estera).
Come già accadde nei Balcani negli anni 90, soltanto la decisione americana di intervenire con o senza il mandato dell'Onu – pure allora con parecchie indecisioni, tanto che oggi l'allora presidente Bill Clinton rimpiange di non essere stato più rapido – determinò l'inizio dell'operazione contro Milosevic (fino a quel punto “contenuto” con sanzioni, nonostante il massacro di Srebrenica). La leadership americana è stata ancora più significativa, e contestata, in Afghanistan contro i talebani e in Iraq contro Saddam. Quando Washington ha lasciato l'iniziativa all'Onu c'è stato il genocidio in Ruanda, c'è il genocidio in Darfur, c'è la guerra civile in Costa d'Avorio, c'è la Libia.
L'azione all'Onu di ieri dimostra che infine Obama è stato costretto a schierarsi, sempre all'interno del multilateralismo. Secondo le indiscrezioni il presidente terrà un discorso importante sulla politica estera nell'imminente viaggio in sud America. Ma come ha scritto Victor Davis Hanson, Obama assomiglia ad Amleto, grandioso a parole e inefficace nelle azioni, e – ricorda sconsolato lo storico – il principe danese “non ha quasi mai agito in tempo”.
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