Occhiaie di riguardo

La storiaccia brutta dell'agente Cia condannato e poi liberato in Pakistan

Toni Capuozzo

Tutto nel giro di poche ore. Raymond Davis, l'agente della Cia agli arresti in Pakistan, è stato prima rinviato a giudizio per duplice omicidio in un'udienza preliminare, e poi scarcerato. Prima che la seconda notizia trapelasse, Davis era già in volo, probabilmente verso Londra. Tutto è iniziato alla fine di gennaio, in una strada di Lahore, rumorosa e affollata, nella quale presumibilmente  Raymond A. Davis, un biondo trentaseienne cresciuto tra le montagne del sud ovest della Virginia, si destreggia con qualche preoccupazione alla guida di una Honda Civic con targa locale.

    Tutto nel giro di poche ore. Raymond Davis, l'agente della Cia agli arresti in Pakistan, è stato prima rinviato a giudizio per duplice omicidio in un'udienza preliminare, e poi scarcerato. Prima che la seconda notizia trapelasse, Davis era già in volo, probabilmente verso Londra. Tutto è iniziato alla fine di gennaio, in una strada di Lahore, rumorosa e affollata, nella quale presumibilmente  Raymond A. Davis, un biondo trentaseienne cresciuto tra le montagne del sud ovest della Virginia, si destreggia con qualche preoccupazione alla guida di una Honda Civic con targa locale. Ma la preoccupazione più forte, secondo il suo racconto, è per una coppia di motociclisti che sembrano seguirlo, dopo che ha fatto tappa a un bancomat per un prelievo. Davis estrae una Glock e fa fuoco contro i due, uccidendoli. Sembra il classico caso di un'autodifesa contro una rapina che diventa reazione sproporzionata, e solleva un incidente diplomatico. Perché l'uomo risulta essere, secondo le dichiarazioni dell'ambasciata americana, un funzionario addetto alla stampigliatura dei visti sui passaporti, come sono diplomatici gli occupanti di un suv che accorrono in suo soccorso, andando contromano nel traffico, investendo e uccidendo un altro motociclista.

    La questione giuridica – la convenzione di Vienna sull'immunità diplomatica non prevede copertura per reati gravi quali l'omicidio, e il ruolo impiegatizio di Davis gli offre immunità ancora più esigue – è stata dibattuta fino alla vigilia dell'udienza preliminare. Ma è stato come discutere del sesso degli angeli, perché nel frattempo quello che a Washington e a Islamabad già si sapeva era diventato pubblico, infiammando le piazze pachistane e rendendo impossibile quello che forse sarebbe potuto accadere  in altri tempi, e forse in altri luoghi: chiudere tutto in silenzio. Ormai tutti sapevano che Davis è un agente Cia. Si sa, di lui, che ha servito l'esercito come Berretto verde, che ha prestato servizio in Macedonia, e si è congedato nel 2003. Si sa che ha aperto un'agenzia privata, chiamata Hyperion, con base in Florida (ma si sa anche che l'agenzia, il cui nome ricorda qualcosa a noi italiani, è intestata a lui e a sua moglie, ma in realtà è solo un sito web, una scatola vuota). Qualcuno sostiene abbia lavorato, Davis, anche per l'agenzia di contractors che si chiamava Blackwater. Certo è che giunge in Pakistan nel 2009, con un visto diplomatico. E certo è che la polizia pachistana, quando ancora Obama chiama Davis “il nostro diplomatico in Pakistan” gli trova nell'auto telefonino satellitare e make up militare per mascherarsi il volto, macchine fotografiche e telescopio portatile, proiettili e altri aggeggi che spingono a indagare di più e meglio su schede dei telefoni e delle macchine fotografiche.

    Bisognerebbe aggiungere che risulta essere vero
    che i due motociclisti stavano seguendo Davis da due ore, ed è vero che uno dei due, quello sul sellino posteriore, era armato di pistola. Ciò non toglie che Davis sia andato oltre la legittima difesa: ha prima ucciso l'uomo sul sellino attraverso i  vetri della sua auto, poi è sceso ed ha sparato dieci colpi di pistola contro l'altro che fuggiva a piedi. “Troppo”, ha detto un funzionario di polizia pachistano, ma la vicenda è andata ben oltre un dibattito giuridico su legittima difesa e immunità diplomatica. La casa in cui abitava Davis, raggiunta dalla polizia, è risultata essere stata ripulita e abbandonata da chi, insieme con lui, la occupava fino a poche ore prima. I due motociclisti, hanno scritto un giornale pachistano e uno indiano, erano al servizio dell'Isi, il servizio segreto pachistano. E alle questioni della sovranità e dell'orgoglio nazionale, che hanno acceso il mai sopito antiamericanismo della piazza, si sono aggiunti gli ingredienti che renderebbero piena una telenovela di Bollywood, e altri che  iscrivono la vicenda nella storia infinita del Grande Gioco. Perché la moglie diciottenne di uno dei due motociclisti si è tolta la vita ingerendo un veleno per topi, e mormorando un appello alla vendetta, prima di spirare. E Davis, i cui pasti nel supercarcere di  Lahore erano controllati dal consolato americano, mentre gli agenti più vicini a lui erano disarmati, gli altri detenuti tenuti lontani e le mura sorvegliate dai reparti speciali dei rangers del Punjab, Davis aveva ingenuamente chiesto di spegnere gli altoparlanti che chiamano alla preghiera i detenuti, e fondamentalisti e integralisti ne hanno chiesto la decapitazione, in base alla legge sulla blasfemia.

    E adesso, con un colpo di scena da prestigiatori sul palco, Davis, appena incriminato, viene liberato. A consentirlo un accordo di compensazione, il “prezzo del sangue” pagato alle famiglie delle vittime (ma i loro avvocati si chiamano fuori, denunciando di essere stati arrestati per qualche ora, il tempo di barattare giustizia e orgoglio con un mucchio di dollari). Il fatto è che Davis era un detenuto troppo ingombrante, per l'America e per il Pakistan, per la Cia e l'Isi, perché la sua storia rivelava un mondo di alleanze e tradimenti, di doppi e tripli giochi molto meno accademici delle discussioni su legittima difesa e immunità diplomatica.