Storia di toga e comizi
In fondo non sbaglia un processo. Certo, se si vanno a guardare le statistiche dei carichi di lavoro della procura di Palermo tra il 2000 e il 2008, magari si vedrà che il sostituto procuratore Antonio Ingroia non era tra i più oberati dai fascicoli. Però l'attuale procuratore aggiunto faceva indagini importanti e ponderose. Fra i cosiddetti “grandi processi” imbastiti dalla procura di Palermo al tempo di Gian Carlo Caselli solo due non sono finiti con l'assoluzione o con il proscioglimento per prescrizione dell'imputato: e sono gli unici due che ha fatto Ingroia.
In fondo non sbaglia un processo. Certo, se si vanno a guardare le statistiche dei carichi di lavoro della procura di Palermo tra il 2000 e il 2008, magari si vedrà che il sostituto procuratore Antonio Ingroia non era tra i più oberati dai fascicoli. Però l'attuale procuratore aggiunto faceva indagini importanti e ponderose. Fra i cosiddetti “grandi processi” imbastiti dalla procura di Palermo al tempo di Gian Carlo Caselli solo due non sono finiti con l'assoluzione o con il proscioglimento per prescrizione dell'imputato: e sono gli unici due che ha fatto Ingroia. Bruno Contrada sta ancor oggi scontando la pena. Marcello Dell'Utri aspetta paziente l'udienza in Cassazione, ma con pessimi auspici, dato che è stato condannato sia in primo che in secondo grado.
Indecifrabile, questo magistrato ancor oggi giovane, con i suoi quasi 52 anni, 24 dei quali trascorsi in magistratura, 19 alla procura di Palermo. Vittorio Sgarbi gli aveva dato dell'ayatollah e, se ci si limita all'aspetto fisico, alla barbetta ispida e al capello crespo, è difficile dargli torto. Ma il riferimento era anche ad altro, all'intransigenza e alla rigidità mentale, all'estremismo da fondamentalista, alla spietatezza nei confronti degli avversari. Nulla di più sbagliato. Ingroia è tutto meno che un talebano o un ayatollah. E' tutt'al più Rafsanjani, non Khamenei. Cavour, non Garibaldi e nemmeno Mazzini. Ostinato. Se ha un obiettivo fa di tutto per raggiungerlo. Ma non è un kamikaze.
E' stato il prediletto di Caselli e il fiero avversario del suo successore, Piero Grasso. Primo tra i sostituti col procuratore che veniva da Torino; “agnuniato”, “posato”, messo da parte e agitatore, assieme a Roberto Scarpinato contro Grasso, Giuseppe Pignatone e Sergio Lari, tutti poi emigrati o costretti a emigrare altrove. Oggi le malelingue dicono che sia lui, Ingroia, ad avere la leadership nella procura di Palermo, ma guai a sposare questa tesi, perché il capo dell'ufficio, Francesco Messineo, su questo punto ha la querela facile.
Ingroia è stato nominato “aggiunto” a soli 49 anni; Giuseppe Fici e Ambrogio Cartosio, due colleghi più anziani che avevano fatto ricorso, avevano chiesto di sospendere la sua nomina e, con un autentico blitz, il pm del processo Dell'Utri riuscì a insediarsi comunque, assieme ad altri quattro nuovi vice di Messineo. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha fatto capire a Lucia Annunziata, durante “In mezz'ora” di domenica scorsa, che se non fosse stato per lui, che consentì l'“anticipato possesso”, il blitz non sarebbe riuscito e Ingroia sarebbe ancora adesso a combattere a colpi di carta bollata per diventare procuratore aggiunto. E il pm che ha indagato e indaga su Silvio Berlusconi ringrazia sornione: “Il guardasigilli l'avrà fatto non so se per i miei meriti o per la stima professionale”.
Appena entrato in magistratura fu allievo di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, che seguì a Marsala, per poi tornare a Palermo assieme a lui, pochi mesi prima che l'ex giudice istruttore saltasse in aria in via D'Amelio. Insegue da anni i “mandanti occulti” delle stragi, cosa che in teoria sarebbe di competenza della procura di Caltanissetta, con la quale anche per questo (oltre che per la valutazione delle posizioni di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza) sono sorti contrasti e frizioni sempre più evidenti. Cerca di provare la trattativa fra mafia e stato, dopo avere partecipato a interminabili indagini-contenitore, archiviate in silenzio dopo anni e anni di accertamenti, interrogatori, viaggi alla ricerca di prove, convegni, dibattiti, libri, interventi sui giornali.
In procura Ingroia aveva fatto squadra con Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli, Domenico Gozzo, Gaetano Paci e soprattutto Scarpinato. Ma senza mai esagerare. E' rimasto fuori da tutte le inchieste con cui si doveva riscrivere la storia d'Italia: i processi Andreotti, Mannino, Musotto, Carnevale, l'indagine sui sistemi criminali non hanno mai visto la sua firma e come sono finiti si sa. Ma anche nella conduzione dei processi ha sempre dimostrato di essere un gradino più su dei colleghi. Soprattutto nella tattica. Lui, Ingroia, ad esempio ha fatto processare per mafia un anonimo deputato regionale Dc di Salemi, il paese dei potenti esattori mafiosi Salvo: ma al momento della requisitoria, per Pino Giammarinaro chiese l'assoluzione. Cogliendo l'occasione per polemizzare col Parlamento: “Questo processo – disse – rappresenta emblematicamente la distanza della verità processuale dalla realtà delle cose. L'assoluzione va chiesta a causa della modifica costituzionale del cosiddetto giusto processo”. Stoccata dal valore doppio: al governo, allora, nel 2000, c'era il centrosinistra. Giammarinaro fu assolto e il pm cadde in piedi. Con Scarpinato, Ingroia ha condiviso indagini e battaglie, idee, principi di fondo, e alla fine, quando l'ex pm del processo Andreotti è andato a Caltanissetta, dove è diventato procuratore generale a soli 58 anni, si è dispiaciuto ma non troppo. I riflettori, a Palermo, ora sono tutti per lui.
Anche l'indagine per concorso esterno su Berlusconi venne archiviata su richiesta della stessa procura, salvo poi essere riaperta e richiusa una serie di volte (e anche oggi il premier è certamente sotto indagine a Palermo, ma la procura ha sempre glissato, smentito, nicchiato). Le richieste di archiviazione erano una sorta di requisitoria, con cui gli indagati venivano un tantino – anche un tantino molto – “mascariati”. Tanto poi nessuno poteva impugnare niente. Ma in fondo Ingroia non avrebbe voluto processare nemmeno il generale Mario Mori, finito per due volte in sue inchieste: in entrambi i casi fu il Gip a imporre o comunque a spingere verso il processo.
Il primo caso fu quello della mancata o ritardata perquisizione del covo di Totò Riina: dopo avere chiesto l'archiviazione ed essere stato costretto dal giudice a fare il processo, Ingroia tenne una requisitoria che conteneva passaggi al curaro nei confronti del generale, ma chiese alla fine lui stesso l'assoluzione di Mori e dell'altro imputato, il capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, l'uomo che catturò Riina. Il tribunale accolse la richiesta e ancora una volta il pm cadde senza in realtà cadere affatto.
Il secondo processo in cui Mori deve ancor oggi fronteggiare Ingroia è nato allo stesso modo: da una richiesta di archiviazione non accolta. Stavolta però, dopo le nuove indagini imposte dal giudice, i pm hanno ottenuto che il generale tornasse alla sbarra per avere favorito Bernardo Provenzano, impedendone la cattura nove anni prima che la polizia, coordinata da Pignatone, Michele Prestipino e Marzia Sabella, non senza scorno del cosiddetto gruppo degli ex “caselliani” della procura, catturasse il latitante più duraturo di tutti i tempi.
E' su questa vicenda che si è innestata la seconda indagine sulla trattativa, in gran parte alimentata dall'interminabile cantata del figlio di don Vito Ciancimino. E' su questa vicenda che si sono rotti il sodalizio con Caltanissetta e i rapporti personali con l'aggiunto di quella procura, Domenico Gozzo, che con Ingroia vinse il processo Dell'Utri in tribunale, a Palermo. Al giovane Ciancimino i magistrati che indagano sulle stragi non avevano creduto mai molto: quando ha fatto il nome di Gianni De Gennaro, indicandolo come “il signor Franco”, misterioso personaggio dei Servizi, della cui reale esistenza è finora lecito dubitare, il pool guidato da Sergio Lari lo ha definitivamente “posato”. A Palermo invece continuano a valorizzarlo, ma, a parte qualche eccezione, senza particolare entusiasmo. Ingroia, ad esempio, è spesso in viaggio, per motivi di lavoro o per presentare i suoi numerosi libri, per frequentare salotti televisivi, quando non segue la sua amata Inter (era a Madrid, dietro Zanetti che alzava la Champions vinta l'anno scorso, e finì nella foto di prima pagina della Gazzetta dello Sport; e anche martedì era a seguire il nuovo successo nerazzurro in un'altra Bayern-Inter) e quando non va a convegni e congressi o a manifestazioni di piazza, con o senza bandiere di partito: fece scandalo quella dell'Idv di Antonio Di Pietro e Marco Travaglio contro il bunga bunga per sbeffeggiare Berlusconi; lui si giustificò dicendo che si era limitato a intervenire in video. E fu anche notata la sua presenza alla manifestazione per la legalità di Futuro e libertà, a Reggio Calabria: era seduto in prima fila a stringere la mano di Gianfranco Fini. Fa politica, si dice di lui. Ma non perché sia una toga rossa e porti avanti processi politici. Piuttosto perché il giovane aggiunto è accorto come un politico e sa scegliere le tigri da cavalcare. E' stata la sua procura, ad esempio, a mandare – come “atto dovuto” – alla procura generale le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, arrivate da Firenze. E' stato il sostituto procuratore generale Nino Gatto, però, a metterci la faccia e a incassare la parziale sconfitta, l'assoluzione in appello di Marcello Dell'Utri per i fatti accaduti dal 1992 in poi. Gatto l'ha presa male e ha fatto ricorso. Ingroia non ha fatto drammi e ha incassato la condanna a sette anni per i fatti precedenti al '92. Che – Totò Cuffaro docet – non sono proprio bruscolini.
Tiene alla propria equidistanza e non è tenero con la sinistra. Fa politica anche nella magistratura: la scorsa primavera si candidò alle primarie di Magistratura democratica e venne stracciato da Vittorio Borraccetti, l'altro candidato. Che, è vero, partiva da posizioni di maggiore forza. Ma anche all'interno di Md sanno scegliere i cavalli su cui puntare e uno come Ingroia non è affatto ben visto.
Ingroia è molto amico di investigatori e giornalisti. Faceva le vacanze con Pippo Ciuro, continua a farle con Marco Travaglio. Ciuro invece ha smesso di frequentarlo dopo che fu arrestato, nel 2003, nell'ambito dell'indagine sulle talpe: il maresciallo stava nella stanza del pm e faceva la spia per conto di un imprenditore poi condannato per associazione mafiosa, Michele Aiello, nello stesso processo che ha fatto finire in cella Cuffaro. L'indagine era condotta dal “grassiano” Pignatone. C'erano tanti possibili schizzetti di fango, per Ingroia: ad esempio i lavori in un suo casolare di Calatafimi, realizzati dall'impresa di Aiello. Qualcuno disse che, a parti invertite, non ci sarebbe stata pietà alcuna per Pignatone. Invece al collega i pm delle talpe risparmiarono tutto ciò che potevano. Proprio Ingroia, poi, è stato ritenuto tra gli artefici della nomina di Messineo al ruolo di procuratore e della sconfitta che ha costretto Pignatone a ripiegare su Reggio Calabria.
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