Occhiaie di riguardo - di Toni Capuozzo
In guerra non esiste la verità, ma se ci sei dentro devi almeno vincerla
Non è che mi piaccia raccontare le guerre, ma preferirei essere a Tripoli che qui. Perché raccontare le cose che vedi è meglio che stare a casa a pensare. E, a volte, non so cosa pensare.
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Non è che mi piaccia raccontare le guerre, ma preferirei essere a Tripoli che qui. Perché raccontare le cose che vedi è meglio che stare a casa a pensare. E, a volte, non so cosa pensare. Oggi non ho letto i giornali, per non essere d'accordo con questo o quell'editoriale, e poco dopo essere d'accordo con un editoriale che sostiene il contrario. Che in guerra non esista la verità, è cosa vecchia ma sempre vera. Neppure nei numeri, che pure dovrebbero essere i dettagli più nudi. E qui sono rimasto a due numeri. Le ottomila vittime che Gheddafi, i suoi aerei, le sue truppe, i suoi mercenari hanno provocato, in sei settimane di rivolta, tra i ribelli e la popolazione che li appoggia. Le 67 vittime – ma può darsi che il numero sia stato aggiornato, nelle dichiarazioni del ministero della Sanità libico – provocate tra la popolazione civile dalle incursioni aeree e dai missili della coalizione. Non c'è niente di peggio della conta dei morti, e della contrapposizione algebrica delle vittime, ma i numeri contano.
Contano anche quando consideri le ragioni di una guerra, e i suoi retroscena, nobili come l'approvvigionamento di fonti energetiche – perché, posto che la guerra è sempre un guasto, una disgrazia, un corto circuito della ragione, sarebbero nobili le guerre per odio etnico, razziale, religioso, ideologico? – o meno nobili come calcoli elettorali, affermazioni di leadership continentali. Contano perché ogni guerra, che la chiami con il suo nome o con altre, sottili ed edulcoranti definizioni, questo è: una conta dei morti, e vediamo chi tiene duro più a lungo. Una conta dei morti e una scommessa sul futuro, sulla vittoria e sulla sconfitta. Per questo nutro perplessità sull'Odissea all'alba (ma un nome meno sciagurato, meno promettente di tempi lunghi, non lo potevano trovare, per una guerra in cui l'unica superiorità di Gheddafi è la scommessa sul tempo, ogni giorno che passa un gettone di presenza glorioso?), perché la vittoria – militare con la no fly zone imposta, e politica con la rimozione di Gheddafi – è poco rosea per l'Italia, che si gioca immigrazione e petrolio e gas, e la sconfitta, con Gheddafi che resta in sella e una Libia ripartita è altrettanto funerea. Ma i numeri sono numeri, anche quando non si possono comparare, anche quando temiamo di doverli proiettare nel futuro, come fanno i demografi.
Non so se gli ottomila siano un numero credibile, ma so che lo sarebbero diventati con la caduta di Bengasi. So che i 67 – o quanti siano diventati nel frattempo – possono essere, come gli ottomila, un numero di propaganda, ma so che anche solo una vita inerme è un dazio morale che deve pesare, su chi non si illuda sulla natura chirurgica di qualunque intervento militare, specie dall'alto (come insegna la realtà contemporanea dei droni impegnati per uccisioni mirate in Afghanistan e Pakistan, e come ci ricorda il bombardamento umanitario della Serbia, di cui continuo a ricordare, io che non ho buona memoria, il nome e il cognome di una bambina di tre anni, Milica Krstic, uccisa dalle schegge di ricaduta di una bomba che aveva centrato correttamente e legittimamente la pista dell'aeroporto militare di Batajnica).
E dunque questi numeri possono costituire il cuore di una domanda brutale: quanti ne possiamo uccidere, controvoglia, per salvarne quanti? E' una domanda cui non saprei rispondere. Perché come molti, sono stato pigro, davanti alla Libia. Ho pensato, prima, all'inizio, che per una qualche benedizione seriale, potesse finire come in Tunisia e in Egitto. Poi ho pensato che ineluttabilmente sarebbe finita in altro modo, con la vittoria scontata e feroce di Gheddafi, che lasciava anche alle anime brutte il conforto di una meditazione sul cinismo dell'occidente, e sul destino infame dei ribelli. Invece no, non c'è stata un'altra Srebrenica, non siamo diventati tutti caschi blu olandesi. Invece lo stesso paese del generale Morillon, per sue poco limpide ragioni, ha forzato tutti a fare quel che pochi giorni prima sembrava impensabile. E che continua a lasciarmi perplesso, se non contrario. Perplesso e nostalgico di uno stato delle cose in cui – a quale prezzo dei diritti civili faremmo bene a non scordarcelo – Gheddafi bloccava esodi biblici, dava petrolio e gas, faceva folklore con le sue amazzoni, le sue hostess romane, i suoi beduini a Villa Pamphili. Uno stato delle cose in cui tante risoluzioni delle Nazioni Unite restano lettera morta – ma non doveva essere disarmato Hezbollah ? – e tanti compunti osservatori raccontano il cinismo del mondo, e il sacrificio delle rivolte sconfitte.
Sta andando diversamente, e questo spiazza governo e opposizione (ma il lamento del premier sull'amicizia è una delle poche cose sincere sentite in questi giorni), anime belle e anime brutte. Ma conservo, delle guerre, un'opinione semplice e cruda. Se ci sei, devi almeno vincerla, per non lasciare altre Somalie per strada, per sederti al tavolo dei vincitori, per andare a vedere chi siano, in Libia, quelli che hanno scampato il ruolo di vittime in editoriali pensosi, in film, pièce teatrali e processi all'Aja, con le cicatrici di Iran e Iraq che ancora fanno male, di tanto in tanto.
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