Recitare Macbeth a Sana'a

Daniele Raineri

Ci vorrebbe un nuovo poeta arabo per raccontare l'orrore di un padre e di un figlio che sotto la luna gigante di questi giorni si guardano dalle finestre dei rispettivi palazzi di Sana'a, a poca distanza, e assieme complottano per la distruzione dello Yemen. Costi quel che costi, tutto sarà lecito purché non s'interrompa il sogno di una dinastia familiare di potere.

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    Sana'a, dal nostro inviato. Ci vorrebbe un nuovo poeta arabo per raccontare l'orrore di un padre e di un figlio che sotto la luna gigante di questi giorni si guardano dalle finestre dei rispettivi palazzi di Sana'a, a poca distanza, e assieme complottano per la distruzione dello Yemen. Costi quel che costi, tutto sarà lecito purché non s'interrompa il sogno di una dinastia familiare di potere.

    Il padre è Ali Abdullah Saleh, ex guidatore di carri armati, licenza elementare, salito alla presidenza del paese trentadue anni fa, dopo che il suo predecessore – e amico e commilitone – fu ucciso da una valigetta esplosiva dopo soli otto mesi di mandato. Il figlio è il primogenito Ahmed Saleh, 35 anni, generale della Guardia repubblicana e anche dei Gruppi speciali, la dimostrazione che se il rais dell'Egitto Hosni Mubarak avesse avuto un discendente generale dell'esercito, anziché l'allampanato banchiere Gamal che si è rifugiato a Londra con cento valigie pochi giorni prima della sua cacciata, oggi forse sarebbe ancora al suo posto (i generali egiziani non si sono spostati di un centimetro). C'è un elemento generazionale e di sangue che in terra araba, dove tutti sono o Abu, “padre”, o Ibn o Bin, “figlio” di qualcuno, è fortissimo: le rivolte democratiche si scontrano con i discendenti dei rais e li mettono alla prova.

    In Libia è la testa tonda e luccicante di Saif, “spada dell'islam” e figlio di Muammar, ad apparire in televisione e a rassicurare con la sua sola esistenza i sostenitori scettici che il colonnello non è un vecchio tinto e solo e prigioniero delle proprie manie, c'è una linea di continuità, c'è un dopo. La voce che arriva da Tripoli è che quando nella villa di famiglia la progenie ha discusso se afferrare le valigie e i gioielli e riparare all'estero o restare e combattere, il figlio abbia convinto gli altri pavidi a pistolettate, non si sa quanto puntate in aria. In Siria le forze di sicurezza si sono messe a sparare e a uccidere dopo che i ribelli di strada hanno buttato giù una statua di Hafez, padre dell'attuale “presidente” Bashar el Assad  – è la dinastia degli Assad, “i leoni”: Hafez non ebbe esitazioni a radere al suolo la città di Hama nel 1982 per spegnere una rivolta. Nel regno saudita il vecchio re Abdullah ha una galassia così turbinante di possibili candidati alla successione che il trono dei Saud non ha mai veramente tremato nemmeno per un secondo. In Tunisia dopo il presidente Ben Ali c'era soltanto la moglie modaiola e viziata, ed è finita in fretta, il popolo ha preso subito il sopravvento.

    In Yemen c'è Ahmed. E' cresciuto con la convinzione per nulla lontana dal vero che il paese sia una gigantesca e redditizia impresa di famiglia, il giocattolo destinato tra poco a cadergli per forza di gravità fra le mani: e quindi che cosa è ora questo impazzimento generale? Chi sono questi studenti certamente sobillati da agenti stranieri che vogliono strappargli di mano una storia che non deve, non può, accadere altrimenti da come la immagina lui fin da quando era bambino? A questo si aggiunge un elemento shakespeariano. Il mormorio di Sana'a, fin da prima della ribellione e per questo non può essere una cattiveria da ufficio propaganda anti despoti, racconta la storia della moglie del presidente e madre di Ahmed, nobile e istruita e con ottimi collegamenti in tutto lo Yemen, così tanto terribilmente superiore al marito fino al giorno in cui i freni della sua macchina con autista non cedettero, altrettanto terribilmente, assieme e di colpo in una curva fuori dalla capitale. A differenza degli altri due occupanti della vettura, lei sopravvisse per due giorni e fece in tempo a confidare i suoi sospetti sul presidente.

    Chi conosce il figlio – e le vie yemenite sono infinite, c'è sempre la compagna di studi della sorella, un ex compagno della scuola ufficiali, o un parente di una delle due mogli (c'era anche una terza moglie, russa, ma hanno divorziato) – dice che Ahmed è dolce e tenero in casa e di rozzezza bestiale all'esterno. Ha studiato in un'accademia militare della Giordania e in un college degli Stati Uniti – in questo momento tutta la parte femminile del clan di Saleh è rifugiata in America – ma il sangue si fa sentire. Questo è l'aneddoto più famoso: quando era più giovane fu contraddetto in pubblico da uno dei generali più vicini a suo padre. Punto sul vivo, il ragazzo schiaffeggiò l'uomo, che dall'alto del suo rango e della sua posizione lo schiaffeggiò subito di rimando. A quel punto per il giovane Ahmed c'era da fare una scelta: abbozzare e incassare e raccogliere da terra i frammenti di amor proprio, o alzare fatalmente il livello dello scontro. Lui estrasse la pistola e sparò un colpo in pancia al consigliere, ammazzandolo.

    Ovvio che ora questo tratto della personalità del figlio conta, e tutti tirano fuori la storia, per spiegare che cosa potrebbe accadere. Il potere dei Saleh è sotto assedio e non è mai stato così vicino a dissolversi. Più di metà dell'esercito e i clan si sono uniti all'opposizione, il governo è stato sciolto d'autorità per fermare l'imbarazzante fuga dei ministri, almeno 25 ambasciatori in tutto il mondo hanno rassegnato le dimissioni, i parlamentari hanno disertato in massa: i segni della fine si moltiplicano. La settimana scorsa il nipote del rais, Yahia, capo della temutissima Centrale di sicurezza, è stato sfidato apertamente dai suoi uomini che gli hanno cantato in faccia durante una rivista militare lo slogan della rivolta: “Il popolo vuole abbattere il sistema”. Ieri il nipote-generale è stato bloccato all'aeroporto dagli uomini del rais mentre cercava di fuggire. Il padre sa che restano soltanto due alternative: le dimissioni subito, oppure prima un bagno di sangue e poi la fuga. Perché resistere ancora? Perché schierare i tank nella capitale? Perché c'è ancora una famiglia, perché c'è ancora una promessa fatta a un figlio da sistemare al proprio posto. Dal campo dell'opposizione commentano: “Pensavano che questo fosse un regno. E' una repubblica”.

    Domani, dopo la preghiera islamica del venerdì, un corteo popolare dovrebbe partire dal quartiere generale della protesta e andare verso il Palazzo presidenziale, che in questi giorni si è trasformato in una zona totalmente militarizzata dove è poco prudente avvicinarsi. Spareranno di nuovo? Una settimana fa la ferocia non ha bloccato il corteo, che è avanzato lo stesso a braccia alzate sotto il fuoco dei cecchini e ha persino catturato alcuni degli sparatori: “Tanto lo sa che deve andare via, deve soltanto fissare il prezzo in vite umane che vuole. Ne vuole mille? Siamo pronti a darle”.

    Non si sa ancora se la notizia del corteo di massa sia vera, forse è soltanto pretattica per fare pressione sul regime, gli oppositori pensano: che sia possibile dare la spallata senza far scorrere veramente e di nuovo il sangue? Ma nella capitale Sana'a è tutto come se venerdì fosse il giorno decisivo. Gli stranieri hanno ricevuto l'ordine di lasciare il paese entro 24 ore e molti sono già tornati in patria; c'è un coprifuoco serale; molte strade sono bloccate.

    Per ora la scelta di Saleh e figlio è chiara. La dittatura di omissione dello Yemen, la dittatura colpevole di non fare abbastanza per il popolo e di curare soltanto i propri interessi personali, apre al referendum costituzionale e alle elezioni entro l'anno ma si sta trasformando in una dittatura di azione. Ieri pomeriggio al Jazeera ha mostrato le foto di oppositori torturati nelle celle della città di Taiz. Al mattino il Parlamento, in una seduta farsa con 71 presenti su 301, ha approvato una Legge d'emergenza che scadrà fra 30 giorni e che consente alla polizia di entrare nelle case, arrestare e uccidere chiunque senza temere un giorno di essere chiamata a rispondere. La legge per questa licenza di uccidere ha raggiunto l'approvazione con il numero legale di 148 presenti soltanto grazie alle firme falsificate dei deputati assenti. Nella città costiera di al Hodeida le Guardie stanno lavorando febbrilmente attorno a un aeroporto militare per trasformarlo in un bunker da cui poter eventualmente volare via.

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    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)