Ora che la Cultura è salva, si può dire la nuda verità sui questuanti

Marina Valensise

Adesso che il taglio lineare sul bilancio del Beni culturali è stato smentito dai fatti, e siamo (quasi) tutti contenti di contribuire alla tutela del patrimonio pagando tra lo 0,1 e lo 0,6 in più sulla benzina, possiamo dire o no che la campagna in difesa dei fondi alla Cultura è stata per vari aspetti bolsa e retorica? Non era una bella cosa veder tirare volantini dai palchi dell'Opera, o improvvisare cori antigovernativi per salvare la cultura come se si stesse salvando la patria.

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    Adesso che il taglio lineare sul bilancio del Beni culturali è stato smentito dai fatti, e siamo (quasi) tutti contenti di contribuire alla tutela del patrimonio pagando tra lo 0,1 e lo 0,6 in più sulla benzina, possiamo dire o no che la campagna in difesa dei fondi alla Cultura è stata per vari aspetti bolsa e retorica? Non era una bella cosa veder tirare volantini dai palchi dell'Opera, o improvvisare cori antigovernativi per salvare la cultura come se si stesse salvando la patria. Non c'è niente di patriottico nel chiedere soldi allo stato. Perciò, passata la tempesta e celebrata la resipiscenza del ministro Tremonti, è l'ora di domandarsi che cosa siano disposti a fare i privati per la cultura.

    E che cosa proporrà loro il ministro Galan. Intanto, come mai per finanziare il cinema si è rinunciato all'aumento del prezzo del biglietto? In fondo, un euro in più non è un esborso insostenibile e avrebbe compensato il mancato introito legato all'abolizione nel 1998 della tassa sullo spettacolo. Appena annunciata la misura, gli esercenti però hanno portato il prezzo del biglietto da 7,5 euro a 8, 8,5 e in certi casi a 9, con la scusa del cinema in 3D. E' anche vero che da quando l'allora ministro della Cultura, Walter Veltroni, abolì dal costo dei biglietti la percentuale destinata alla Siae, non si è vista né una diminuzione degli ingressi né degli investimenti da parte degli esercenti nel rinnovo delle sale.

    Ma ora, per razionalizzare le risorse, al Collegio romano hanno un sacco di idee. Innanzitutto riformare il sistema di agevolazioni fiscali. C'è già un disegno di legge, voluto dall'ex ministro Bondi, per destinare solo alle opere prime e seconde, ai documentari e ai cortometraggi il tax shelter (la detraibilità, dal reddito imponibile, di parte dei costi sostenuti per produzioni cinematografiche): in altre parole, il regime di agevolazione fiscale deve servire a far emergere nuovi talenti (usciti dal Centro sperimentale, da Cinecittà, dalla Biennale), non a finanziare registi già affermati, vogliosi di film d'arte che magari lasciano le sale vuote. E' vero che il cinema italiano non è mai stato tanto florido come oggi, ma il sistema di selezione di registi e sceneggiatori non è meritocratico.

    Mancano da noi le durissime scuole che per esempio hanno i francesi, i quali hanno adottato la tassa di scopo per reinvestire gli utili prodotti da un film grazie al circuito televisivo. Quanto al Fondo per lo spettacolo, dotato adesso di 428 milioni (il 5 per cento in più rispetto all'anno scorso), per contenere i costi  di lirica, teatro, danza etc, bisognerà puntare sul mercato del lavoro, rinnovando il contratto collettivo fermo da più di dieci anni. Basta con la liturgia sindacale delle indennità di lingua, di spada, di frack che paralizzano i teatri lirici facendo lievitare i costi. Per aumentare la produttività, inoltre, si dovrebbe investire sull'innovazione, come hanno fatto il San Carlo e la Scala di Milano che grazie a fondi pubblici e privati hanno rinnovato la macchina scenica, consentendo di raddoppiare le alzate di sipario in un anno. Anche qui il privato contribuisce, e può contribuire anche di più.

    Il sistema di erogazioni liberali, introdotto dalla Melandri e ampliato da Urbani, permette già di dedurre dal reddito imponibile elargizioni versate da aziende e privati a enti lirici, grandi istituzioni musicali. Bisognerebbe promuoverlo maggiormente, mobilitando magari tributaristi e altri esperti. Infine, sempre dai privati viene una parte degli utili dei servizi aggiuntivi nei musei. Perché non lasciarne almeno la metà nei musei che li hanno prodotti, come stabilito dalla legge Ronchey, anziché dirottarli tutti al ministero dell'Economia, come decise la Finanziaria 2008? Per Mario Resta, direttore generale per la valorizzazione, “sarebbe un incentivo al mecenatismo e alla buona amministrazione”.

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