La sindrome libica

Luigi De Biase

I capi di trenta diplomazie provenienti dagli Stati Uniti, dall'Europa e dai paesi arabi si sono riuniti ieri a Londra per discutere la missione in Libia e il futuro del paese senza Muammar Gheddafi. Il vertice serviva a stabilire un gruppo di contatto con i ribelli di Bengasi – il leader del Consiglio di transizione, Mahmoud Jibril, ha parlato con il segretario di stato americano, Hillary Clinton, e con i rappresentanti degli altri paesi coinvolti nelle operazioni militari – e a precisare il profilo dell'intervento. Dei due punti in agenda, soltanto il primo si può considerare chiuso.

    I capi di trenta diplomazie provenienti dagli Stati Uniti, dall'Europa e dai paesi arabi si sono riuniti ieri a Londra per discutere la missione in Libia e il futuro del paese senza Muammar Gheddafi. Il vertice serviva a stabilire un gruppo di contatto con i ribelli di Bengasi – il leader del Consiglio di transizione, Mahmoud Jibril, ha parlato con il segretario di stato americano, Hillary Clinton, e con i rappresentanti degli altri paesi coinvolti nelle operazioni militari – e a precisare il profilo dell'intervento. Dei due punti in agenda, soltanto il primo si può considerare chiuso.

    Le certezze e i dubbi di questo intervento sono gli stessi della vigilia: nessuno pensa che il colonnello possa restare al potere, ma gli alleati hanno soluzioni diverse per raggiungere l'obiettivo. “Continueremo a proteggere i civili – ha detto il ministro degli Esteri britannico, William Hague – Saranno loro a decidere il futuro della Libia”. Il capo della Farnesina, Franco Frattini, ha sostenuto l'ipotesi dell'esilio, una strada che impegna il governo già da alcune settimane. Secondo fonti diplomatiche, il ministro degli Esteri di Tripoli, Musa Kusa, sarebbe volato ieri in Tunisia per vedere alcuni funzionari italiani e discutere la possibile “via d'uscita” per Gheddafi. Si è anche parlato di una futura visita di Kusa in Italia, ma la notizia è stata smentita da fonti ufficiali. L'ambasciatore americano all'Onu, Susan Rice, ha detto ieri che gli Stati Uniti non escludono di armare i ribelli (Clinton ha aggiunto nel pomeriggio che non c'è ancora “alcuna decisione” in proposito), e un rappresentante del Consiglio di transizione ha risposto che “le armi sono naturalmente ben accette”. Anche perché le notizie dal fronte sono poco incoraggianti. L'esercito regolare ha subito dure perdite nei bombardamenti alleati, ma ieri ha respinto i ribelli a Sirte e ha contrattaccato a Ras Lanuf e Bin Jawad. Tre esplosioni sono state udite a Tripoli, poco lontano dal bunker di Gheddafi.

    A Londra non era presente l'Unione africana, ma il vertice ha sancito l'ascesa della Turchia, che ha assunto un ruolo centrale nelle operazioni militari e in quelle diplomatiche. L'esercito di Ankara ha preso il controllo di due infrastrutture decisive come il porto e l'aeroporto di Bengasi; allo stesso tempo, il governo di Recep Tayyip Erdogan tratta con Gheddafi per raggiungere un cessate il fuoco. Il premier ha parlato con il colonnello anche alla vigilia dei bombardamenti, dice il quotidiano turco Hürrriyet, mentre il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, mantiene i rapporti con Jibril. Con Erdogan si muove il presidente francese, Nicolas Sarkozy, che ieri ha inviato un ambasciatore fra i ribelli di Bengasi. Sarkozy è l'unico europeo ad aver riconosciuto il Consiglio di transizione e ora vorrebbe aprire una sede diplomatica nella città ribelle. L'attivismo di Turchia e Francia è un problema reale per l'Italia: c'è il rischio di essere tagliati fuori dal processo che segnerà il futuro della Libia, un paese nel quale Roma ha interessi strategici. Lunedì sera, commentando il mancato invito a una videoconferenza fra gli alleati, Frattini ha detto di non sentire “alcuna sindrome da esclusione”. Ieri ha ricevuto l'incarico di organizzare il terzo vertice del gruppo di contatto (il secondo si terrà a Doha, nel Qatar), ma francesi e turchi sono già al lavoro a Bengasi.