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Sbirciare tra le scene di Boris e capire come la tv ha stracciato il cinema

Mariarosa Mancuso

Sveglia. Le gerarchie sono cambiate: in cima troviamo la tv, sotto sta il cinema, sotto ancora la radio e poi c'è solo la morte (professionale). Lo spiega il produttore tv, che quando viene degradato al grande schermo – dopo l'estremo ricatto: “Che vuol dire, passi alla concorrenza? In Italia non esiste, la concorrenza” – toglie dall'armadio un maglioncino stile Marchionne e lo usa come divisa per mimetizzarsi tra i cineasti. Antefatto: in un soprassalto d'orgoglio, il regista René Ferretti (d'accordo con il pesce portafortuna Boris) ha rifiutato di girare al ralenti una scena della fiction “Il giovane Ratzinger”.

    Sveglia. Le gerarchie sono cambiate: in cima troviamo la tv, sotto sta il cinema, sotto ancora la radio e poi c'è solo la morte (professionale). Lo spiega il produttore tv, che quando viene degradato al grande schermo – dopo l'estremo ricatto: “Che vuol dire, passi alla concorrenza? In Italia non esiste, la concorrenza” – toglie dall'armadio un maglioncino stile Marchionne e lo usa come divisa per mimetizzarsi tra i cineasti. Antefatto: in un soprassalto d'orgoglio, il regista René Ferretti (d'accordo con il pesce portafortuna Boris) ha rifiutato di girare al ralenti una scena della fiction “Il giovane Ratzinger”. Per punizione farà cinema.

    Cinema italiano, si intende. Cinema italiano impegnato, che ha comprato i diritti della “Casta”, e intende ricavarne un film di denuncia. Tipo “Gomorra” di Matteo Garrone, che ha incassato l'assegno e abbandonato il progetto lasciando tre paginette di appunti e ghirigori. “Boris – Il film” (di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo, registi e sceneggiatori in trio come i parolieri al festival di Sanremo) non si fa mancare nulla. Neanche anziani critici che alla prima del film osano una discreta carezzina al giovanotto seduto nella poltrona a fianco. Neanche Nicola Piovani che si gioca a poker l'Oscar per “La vita è bella”. Lo vince un trio di Sceneggiatori democratici: colori del Pd, partite a tennis nel loft, una schiera di precari sottopagati al computer, il cameriere extracomunitario che fa da passacarte.

    Se il cinema italiano avesse ancora la capacità di vergognarsi, se non l'avesse smarrita per i troppi cinepanettoni e troppi film d'autore che non incassano una lira, dovrebbe protestare come fecero gli italoamericani offesi dai “Soprano”. Non lo farà, almeno non pubblicamente (in privato, passerà le serate a stabilire chi è l'attrice cagna, e chi l'attore da placcare ogni volta che si intrufola nelle scene altrui, minacciando il suicidio se non viene scritturato). Non perché sia dotato di senso dell'umorismo. Perché è troppo narciso e ottuso per riconoscersi. Gli incapaci e i raccomandati sono sempre gli altri. Anni di perplessità davanti a certe nevrotiche premiate con David di Donatello, Nastri d'argento e Coppe Volpi sono finalmente vendicati dall'attrice che arriva sul set e sussurra, qualunque sia la parte, sotto il livello richiesto dai microfoni della presa diretta.

    Anni di risate trattenute davanti a certe bionde che durante le interviste esibiscono amore per gli orfani e antiberlusconismo militante, sono vendicati da Corinna “la cagna maledetta”, gesticolante come una diva del muto. Disastro dopo disastro, il film di denuncia scivola nella commedia pecoreccia: “Natale con la casta” (e con una quantità di scorregge che neanche un petomane dell'800). Ricomposti dopo le matte risate, resta una curiosità: “La casta” di Stella e Rizzo va considerato un piazzamento di prodotto (come un tempo le marche di whisky e i pacchetti di sigarette in primo piano) oppure un omaggio ai venerati maestri del giornalismo di denuncia?